venerdì 30 agosto 2019
Carlo Sironi, figlio del regista di Montalbano, presenta a Venezia il suo primo lungometraggio, sulla maternità surrogata: «Una storia che parte però da una ricerca sul campo»
Una scena del film “Sole”, regia di Carlo Sironi

Una scena del film “Sole”, regia di Carlo Sironi

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Inviata a Venezia Ermanno ha gli occhi verdi, grandi e tristi, e non sorride mai. Ha 18 anni, vive nella periferia romana, campa di furtarelli e si gioca tutto alle slot machine del bar. Lena sembra una bambina, con quel viso da bambola di porcellana e un largo maglione rosa che le copre il pancione. È arrivata dalla Polonia in Italia per vendere il neonato che ha in grembo, e anche lei non sorride. Quando la piccola Sole nascerà, però, cambierà tutto.

Tocca con essenzialità e delicatezza il tema della maternità surrogata il primo lungometraggio di Carlo Sironi Sole, un gioiellino a sorpresa applaudito in sala a Lido, dove è in gara nella sezione 'Orizzonti'. Un lavoro di cui sarebbe andato sicuramente fiero suo padre, Alberto Sironi, il regista di Montalbano scomparso ai primi di agosto. Una coproduzione italo polacca (Kino produzioni, Rai Cinema e Lava Films) che trova già nei suoi protagonisti le facce giuste, il giovane Claudio Segaluscio, un bravo ragazzo scovato in un liceo in periferia tramite casting, e Sandra Drzymalska, giovane attrice polacca dal volto enigmatico.

Due ragazzi manipolati dagli adulti, Ermanno e Lena, che non mostrano mai i loro veri sentimenti per tutto il film. Ermanno, infatti, deve fingere di essere il padre della bambina per permettere a suo zio e alla moglie, una famiglia borghese, di ottenerne l’affidamento in maniera veloce, attraverso un’adozione fra parenti. Il prezzo pattuito è di 10mila euro. «Si tratta di un caso limite, una storia fuori dall’ordinario, che parte però da una ricerca sul campo: in Italia la maternità surrogata è vietata dalla legge, ci sono molti espedienti illegali nel mondo delle adozioni, dove il traffico di neonati è una realtà concreta – ci spiega Carlo Sironi –. Ho chiesto consiglio a Melita Cavallo, già presidente del Tribunale per i minorenni di Roma, che mi ha confermato l’esistenza di questa pratica. Ho letto anche dei rapporti ufficiali sul traffico di bambini. Affrontare il tema della maternità surrogata e dei suoi limiti è scivoloso, complicato. Ho preferito concentrarmi sui due personaggi e, anche, sul tema della paternità».

Ermanno e Lena hanno in comune il fatto di essere orfani, e trovano inconsapevolmente sostegno l’uno nell’altra, anche se inizialmente la loro è solo una convivenza forzata. Ma il giovane, che deve anche custodire la ragazza in una casa al mare, fra una corsa in ospedale, un’ecografia e un cambio pannolini comincia a cambiare prospettiva scoprendo il senso di responsabilità, oltre che l’amore per Lena. Una relazione fatta di sguardi, lunghi silenzi, dolore trattenuto in una periferia algida.

E mentre la giovane mamma pare voler andare dritto per la sua strada, cercando di non affezionarsi alla piccola, Ermanno si cerca un lavoro onesto per sostenerle come fosse il vero padre. «Dal momento in cui Ermanno posa gli occhi sulla creatura quando nasce, le cose cambiano e lui proporrà di prendersi cura di lei e della madre anche se la bimba non è sua. Scatta un senso di protezione e di difesa nei confronti della vita indifesa» spiega il 36enne Sironi, aggiungendo: «Mi interessava indagare la figura del padre. Fin da giovane mi sono chiesto come sarebbe stata la mia vita se fossi diventati padre: cosa significa essere padre? Essere genitori?». La differenza, rispetto alla coppia borghese chiusa nel suo, è che in Er- manno si profila il supporto alla genitorialità di chi è più debole, piuttosto che il diritto alla maternità di chi è disposto a tutto, anche ad acquistare illegalmente un bambino. Lo zio e sua moglie (una affannata Barbara Ronchi), infatti, incombono nelle vite dei ragazzi e della piccola Sole. La bimba, infatti, è nata prematura e deve essere allattata al seno. I ripetuti tentativi della zia del ragazzo di forzare la bimba a bere il latte artificiale, che ancora rifiuta, pur di portarla a casa propria in fretta, fanno male al cuore dei ragazzi, ma anche dello spettatore che fa il tifo per loro. «Volevo raccontare l’umanità – aggiunge Sironi –.

A volte per troppo desiderio di aver un figlio, non ci si rende conto di cosa il nostro desiderio provoca negli altri. Non volevo essere blando nei toni. L’amore può diventare cieco e passare sopra i sentimenti altrui». Un amore vero, sofferto e inaspettato, invece sarà quello che nasce lentamente fra i due giovani che la nascita di una nuova vita farà maturare di colpo, in un finale aperto alla speranza, dove tutto ciò che è trattenuto si scioglie. «Ho fiducia nei giovani. Le facce da bambini di questi due ragazzi che devono crescere in fretta, e che trovano l’amore in un contesto sociale difficile, danno uno sguardo più tenero e dolce al film anche se tratta un tema duro» aggiunge Sironi che ha scelto uno stile minimalista e semplice derivato dal grande cinema giapponese degli anni 50 con cui l’ha nutrito il padre Alberto sin da bambino. «Quando eravamo nel suo studio, per tenermi buono, mi faceva vedere a 10 anni i film dei grandi registi giapponesi o Bergman, mentre al posto delle favole mi leggeva Hemingway. E oggi molto di quello che c’è nel mio film, rispecchia il nostro rapporto».

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