domenica 8 gennaio 2023
Il “mutismo” colpì molti reduci dai campi, resi incapaci di narrare l’insensatezza della quale furono vittime. Come scrisse Primo Levi, i testimoni più veri furono coloro che non poterono testimoniare
Una baracca femminile del campo di concentramento di Auschwitz Birkenau

Una baracca femminile del campo di concentramento di Auschwitz Birkenau - Ansa

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Mimesis pubblicherà il 13 gennaio, in vista del Giorno della Memoria, Storytelling. La distruzione dell’inalienabile nell’epoca dell’olocausto (pagine 144, euro 14,00), del filosofo Rodolphe Gasché, discepolo di Derrida e docente presso la State University di New York. Gasché analizza il mutismo dei sopravvissuti ad Auschwitz e la loro incapacità di ricostruire il trauma sotto forma di storie.

Si può dare forma a una storia senza dare un senso a ciò che è accaduto nei campi di sterminio, eliminando così l’inimmaginabile terrore? Il noto mutismo dei sopravvissuti rispetto alle loro esperienze non solo testimonia la necessità di non confondere l’incapacità di raccontare a viva voce le loro storie con le altre due attività, ovvero quella di fornire informazioni o di testimoniare ciò che è accaduto, ma anche la necessità di raccontare ciò che hanno subìto, necessità esemplificata dall’urgenza, nonostante l’impossibilità di trasmettere tali esperienze in forma verbale, di farlo in forma scritta. Il libro di memorie di Chil Rajchman sul campo di sterminio di Treblinka è dedicato a «tutti coloro ai quali non è stato possibile raccontare questa storia» a viva voce, compreso suo fratello, l’unico altro sopravvissuto della sua famiglia, al quale non parlò della sua vita come prigioniero nel campo, ma a cui, cosa significativa, qualche tempo dopo il loro ricongiungimento consegnò delle note scritte sulla sua permanenza in quel luogo. Il ricorso alla scrittura sulla condizione in cui si trovavano i prigionieri nei campi non è un modo per superare il loro mutismo che è, invece, presupposto e confermato. Anche se sicuramente non raccontabile perché troppo dolorosa da ricordare, ma soprattutto per la mancanza di qualsivoglia significato di quanto è accaduto nei campi di sterminio, la storia impossibile dei campi deve comunque prendere forma e, laddove possibile, deve essere raccontata ripetutamente e sempre in modo nuovo, anche al prezzo di mitigare la radicale malvagità dell’evento dandogli una forma, la forma di una storia, purché rimanga chiaro che nessuna storia è in grado di dargli un senso. Ma l’assolutamente insensata realtà del mostruoso orrore degli stermini deve essere riconosciuta senza compromessi prima di poter essere trasformata in una storia. Nella sua conversazione con Günter Gaus, la Arendt osserva che ciò che è accaduto ad Auschwitz è qualcosa «con cui non possiamo venire a patti» e che, pur potendo accettare tutto il resto, non sarebbe mai riuscita ad accettare ciò che vi è accaduto.

Questo, forse, non tanto perché «la fabbricazione di cadaveri» ad Auschwitz è «qualcosa di completamente diverso», ma perché, data la sua intrinseca assurdità, era del tutto incomprensibile. Venire a patti con Auschwitz significherebbe avergli trovato un senso ‒ in altri termini, una storia. Un’ulteriore difficoltà che si presenta con lo sterminio sistematico e, allo stesso tempo, insensato degli ebrei è che, pur essendo «una similitudine universale», come ha sostenuto Imre Kertesz, l’olocausto è un evento del tutto privo di una lezione. Le storie non sono solo forme di intelligenza, ma forme che hanno uno scopo pratico: colpiscono dan- do un consiglio. Tuttavia, nell’olocausto non c’è nessuna lezione da ritrovare e, di conseguenza, nessuna lezione da raccontare. Basta citare Ruth Klüger quando scrive che « Auschwitz non era un istituto di formazione [...]. In quel posto non si imparava nulla, almeno in termini di umanità e tolleranza. Dai campi di concentramento non è uscito assolutamente nulla di buono [...]. Erano i luoghi più inutili e senza senso che si potessero immaginare. Se non si sa altro, questa è l’unica cosa da ricordare su di essi». Se, al contrario, Auschwitz è diventato una “similitudine universale” e “un’esperienza universale”, in quanto “evento più traumatico della civiltà occidentale”, non è perché l’orrenda insensatezza di ciò che vi è accaduto non presenta nessun significato o una possibile lezione morale ma, al contrario, perché arriva alla bancarotta dell’etica. Infatti, che una cosa del genere sia stata possibile ha modificato per sempre i fondamenti ‒ metafisici, umanistici e teologici ‒ su cui si è basata almeno l’etica occidentale. Ma come suggerisce il riferimento a una “similitudine universale”, le sue conseguenze si riverberano ben al di là dell’Occidente. Il noto mutismo dei sopravvissuti, la loro incapacità di dare forma a un racconto di ciò che è accaduto nei campi e di ciò che hanno subìto, va ricondotto in ultima istanza all’insensatezza che ha compromesso la loro capacità di comprendere ciò che è accaduto. Oltre all’orrore insensato che hanno subìto, hanno vissuto un’esperienza che ha reso insensata anche l’elaborazione di un senso di quanto è accaduto rendendolo sotto forma di storia [...].

Spogliati dei loro nomi, con solo un numero tatuato sulla loro pelle, in seguito al quale divennero entità conteggiabili di vita a malapena organica, in nessun modo differenti dalle bestie e senza nulla di ciò che erano stati, gli internati dei campi non dovevano più essere considerati o considerarsi come persone o, in ultima analisi, come esseri umani. Hannah Arendt parla di “mostruosa uguaglianza” che la riduzione degli occupanti dei campi al più piccolo denominatore possibile ha comportato, un’uguaglianza che, come vedremo in seguito, significa naturalmente la perdita della loro singolarità o unicità, cioè, precisamente, dell’unica caratteristica che rende umano un essere umano. Questa estrema privazione della dignità umana è stata esemplificata dai cosiddetti Muselmänner, che non solo erano stati costretti ad arrendersi al loro destino: la nuda vita e il mutismo a cui erano stati ridotti equivalevano anche alla distruzione di tutte le capacità umane fondamentali come la possibilità di vedere ciò che veniva fatto loro, e quindi di raccontare la loro storia e, di conseguenza, di avere una storia e un’identità con cui cominciare. Di questi, “i sommersi”, Levi osserva che «accettando l’eclissi della parola » sono i veri testimoni, anche se « non avrebbero ugualmente testimoniato, poiché la loro morte era cominciata prima di quella corporale».

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