mercoledì 30 marzo 2011
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Della filosofia sessantottesca non è rimasto niente. Semplicemente perché tale filosofia non è mai esistita. Naturalmente esistevano scuole di pensiero e autori in cui il Sessantotto cercò il proprio supporto ideologico. Ma siccome l’ideologia prevaleva di gran lunga sulla critica, a uscirne massacrati furono proprio gli autori che il movimento aveva scelto per maestri, anzi (visto che i maestri erano respinti), per guide. Più che leggere, i sessantottini citavano: e citavano Marx, naturalmente, oltre che Lenin e Mao, per non parlare di trovate o scoperte quasi surreali, come l’apprezzamento delle teorie linguistiche di Stalin. Marx veniva letto, si fa per dire, attraverso Garaudy e Althusser, e il risultato era inevitabilmente un cerchio quadrato. Althusser sottolineava nell’opera marxiana quella che secondo lui era una rottura epistemologica a partire dalla quale s’imponeva un nuovo paradigma scientifico e cioè la scienza come unico modello di prassi e di comprensione del mondo. Invece Garaudy portava a fondo il carattere utopico, profetico e messianico del marxismo, facendolo coincidere con una sorta di misticismo che anziché precipitare l’assoluto nella storia, innalzava la storia all’assoluto. Come potessero coesistere due letture tanto diverse e contraddittorie, resta un mistero. A meno che a tentare quei marxisti immaginari, come qualcuno poi li chiamò, non fosse proprio l’idea che mistica e scienza in fondo fossero la stessa cosa... Idea peregrina fin che si vuole, ma dura a morire, se si pensa ai successivi teorici della politica come prassi che rispecchia il movimento oggettivo della realtà, in una parola prassi scientifica. Sia come sia, nel volgere di pochi anni il marxismo tramonta, letteralmente sparisce. Per qualche tempo essere o non essere marxisti rappresentò la principale discriminante filosofica. «Siamo o non siamo marxisti...», era la premessa un po’ minacciosa e ricattatoria che aveva uno sgradevole sapore di anatema. Poi, più nulla che avesse a che fare con Marx, quasi un ripudio tacitamente condiviso e quindi irrecusabile. Né a tutt’oggi il marxismo, salvo qualche pallida rievocazione, è tornato ad affacciarsi all’orizzonte. Il Sessantotto non fu né soggetto né oggetto di filosofia. Non ha prodotto un suo pensiero autonomo. E neppure è stato pensato come evento filosofico. Questo vale sia per la prima fase del movimento, sia per la sua involuzione tetra e violenta. Specialmente di fronte all’uovo malefico che non è figlio del movimento, ma dal movimento è stato fatto schiudere, il terrorismo, la riflessione filosofica è apparsa disarmata e impotente. Per capirci qualcosa bisognerà far ricorso a pensatori della generazione precedente, come Sartre, ad esempio, il quale non esiterà ad applicare al terrorismo l’idea del sacrificio, segnalando come l’uccisione rituale di un membro del gruppo da parte del gruppo esprima l’essenza del terrore, la sua necessità, la necessità della sua «ripresa» – cosa che sarà messa in pratica alla lettera ogniqualvolta il terrore ricadrà su se stesso e si mostrerà figlio della disperazione piuttosto che di una disperata speranza. O addirittura a scrittori che con largo anticipo avevano intuito come funzionasse la logica del terrore, primo fra tutti Dostoevskij. Nondimeno il Sessantotto contribuì a suo modo a mutare le coordinate culturali. Fu (anche) per via di questa azione se il pensiero filosofico dell’epoca tentò nuove strade, incrociando i percorsi, operando commistioni e non rinunciando a forzature. In Francia il marxismo, attraverso Foucault e la sua archeologia del sapere, versione aggiornata della marxiana critica dell’ideologia, si sposa con lo strutturalismo, che poi, in Derrida, si rovescia nel suo contrario e dà luogo a un’ontologia negativa della memoria e della traccia. In Germania la Scuola di Francoforte troverà in Habermas il suo epigono e il suo affossatore. In Italia ci sarà chi, come Vattimo (e dietro Vattimo, poi, una legione) piegherà Nietzsche e Heidegger a una riconsiderazione tutta in positivo del nichilismo, restia a scoprirne il risvolto ombroso e maligno. Va detto che nessuno di questi autori può essere definito un sessantottino. Anche se, se non ci fosse stato il Sessantotto, il loro pensiero non sarebbe stato quello che è stato. Quanto all’impulso che dette l’avvio al movimento, esso mostrò ben presto la corda. La tendenza libertaria e, perché no, libertina che fece esplodere il fenomeno e ne accompagnò l’evoluzione fu presto svuotata di forza e di significato. Perfino la libertà sessuale, che fu salutata allora come una conquista e che ancora oggi si vuol considerare come il battesimo di una svolta epocale, diventò presto una cosa misera: una specie di dovere, un obbligo scolastico, una sofferenza aggiuntiva. Le comuni, che dovevano essere luoghi di esperienze formative e liberanti, assunsero presto tratti grevi, se non concentrazionari, e quando pretesero di diventare comunità, fu anche peggio. Vi imperava una curiosa mescolanza di lassismo e di moralismo. Enunciazioni di principio e massime largamente progressiste si convertivano per lo più in un’etica rigidamente prescrittiva, come se la preoccupazione dominante fosse sorvegliare, giudicare, e soprattutto omologare i comportamenti. Quel che stava accadendo né mi respingeva né mi coinvolgeva. Anni dopo, guardando vecchi spezzoni televisivi, avrei provato un po’ di tenerezza. Come se vi ritrovassi un po’ di vita vissuta, che vissuta allora non avevo per niente. Figuriamoci: a me interessava l’arte, interessava la religione... Precisamente ciò che i sessantottini pretendevano di liquidare come inutili ed equivoche sovrastrutture. Al contrario, io vi cercavo quei contenuti che la filosofia non poteva certo produrre da sé, ma che rappresentavano la solo giustificazione di una seria riflessione filosofica. La religione è cosa viva. Viva come può esserlo una sopravvivenza più o meno arcaica di prospettive che la filosofia della storia avrebbe tradotto in chiave secolare, quasi si trattasse di trapiantare in un corpo nuovo gli organi di un defunto? No, o la religione è viva e necessaria, o non è. Viva in quanto necessaria. Nel senso che ci parla di cose di cui non possiamo fare a meno, ma soprattutto cose di cui solo la religione è in grado di parlare. Lo stesso vale per l’arte.
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