venerdì 25 ottobre 2013
Riproponiamo l'articolo pubblicato su Avvenire il 25 ottobre 2013 in occasione del 90° compleanno del prelato.
Il cardinale Achille Silvestrini e Giovanni Paolo II il 22 dicembre 1989

Il cardinale Achille Silvestrini e Giovanni Paolo II il 22 dicembre 1989

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Da Federico Fellini, di cui ancora ricorda la «grande e infinita tenerezza», agli anni del seminario Faenza o quelli di minutante in Segreteria di Stato durante il Concilio Vaticano II, sotto la sapiente guida dei cardinali Domenico Tardini e Amleto Cicognani, o ancora alle sue missioni in abiti civili effettuate con l’allora monsignor Agostino Casaroli («uomo rigoroso e con una fede saldissima»), a Mosca nel periodo dell’Ostpolitik: sono alcune delle tante istantanee che tornano più in mente dalla sua abitazione in Vaticano, in queste calde giornate romane, al cardinale Achille Silvestrini che oggi compie 90 anni.

Un traguardo che è vissuto nel temperamento del prefetto emerito della Congregazione per le Chiese orientali e ancora oggi presidente della fondazione Villa Nazareth (un pensionato e una comunità di studenti meritevoli che studiano a Roma) con lo stile di sempre: di guardare con fiducia, e senza il carico delle nostalgie, al futuro della Chiesa: «Credo che bisogna ripartire dal Concilio Vaticano II, da tutto ciò che non è stato ancora attuato e deve ancora essere compiuto, – è la riflessione del porporato romagnolo–. Con il mio caro e fraterno amico il cardinale Carlo Maria Martini, nel corso di questi anni ci siamo interrogati, tante volte, su quanto fosse necessario e urgente cercare un nuovo linguaggio per parlare all’umanità di oggi e in particolare alle nuove generazioni e dare risposte adeguate alla modernità. La sfida che attende la Chiesa è proprio quella di uscire dai ristretti ambiti delle sagrestie, in un certo senso di “declericarizzarsi” anche con il proprio laicato e vivere autenticamente il Vangelo. Ritengo che ormai l’Europa non possa più segnare i confini dell’ecclesiologia.

Un esempio? L’elezione di papa Francesco non ha soltanto significato la novità della provenienza del successore di Pietro da un Paese lontano. Il suo stile di vescovo di Roma ci suggerisce non solo di recuperare l’universalità della missione della Chiesa cattolica, ma anche invita tutti noi cristiani a rinnovare il linguaggio dell’annuncio di fede (come fino ad ora abbiamo pensato la teologia). L’elezione di Bergoglio, che si lega idealmente al magistero dei suoi diretti predecessori Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, ci sollecita forse ora più che mai a riprendere le tematiche che erano al centro di tante discussioni conciliari; a riscoprire, facendo tesoro delle lezioni di uomini profetici come Lercaro e Dossetti, alcune priorità costitutive dell’identità ecclesiale, impressa dal Vaticano II, come l’opzione preferenziale per i poveri, il proseguimento della pace tra i popoli e il dialogo con i lontani e i non credenti. In fondo la faticosa attuazione del Concilio, nelle intenzioni di Giovanni XXIII, era ed è ancora oggi un compito aperto: rendere accessibile il Vangelo al cuore di tutti».

Ha qualche ricordo particolare dei turbolenti anni del Concilio?

«Sono stati anni intensissimi che mi hanno permesso, come minutante della Segreteria di Stato, di imparare dal mio allora superiore, il cardinale Domenico Tardini, non solo l’importanza della diplomazia ma anche dell’ascolto degli interlocutori, in un vero primato della carità. Come non posso non dimenticare cosa significò per monsignor Pietro Pavan l’approvazione definitiva della dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa Dignitatis Humanae. Mi tornano spesso in mente l’amarezza e il pianto di Pavan quando fu informato che quel decreto non sarebbe stato approvato e come invece, poche ore dopo, il 21 settembre del 1965, quello stesso documento ottenne il consenso dell’aula conciliare. Lo stesso pianto si trasformò per Pavan in un’inaspettata espressione di gioia».

Eminenza, pochi sanno che la famosa intervista, la prima di un pontefice, concessa da Paolo VI il 4 ottobre del 1965 al giornalista del “Corriere della Sera” Alberto Cavallari ebbe lei come tramite. Ci può spiegare, a tanti anni di distanza, come nacque quell’incontro?

«Ricordo che Cavallari, che divenne poi un mio carissimo amico, mi fu presentato dal segretario di Paolo VI, monsignor Pasquale Macchi. Il giornalista piacentino fece un’inchiesta sull’attività dei vari dicasteri della Curia vaticana e scrisse il famoso libro Il Vaticano che cambia; in questo contesto nacque l’idea di un colloquio tra Cavallari e il grande papa bresciano. Ricordo che il direttore del Corriere, Alfio Russo, inviò Alberto a Roma a seguire il Concilio, “a capire cosa stava succedendo nella Chiesa”. Credo che da lì nacque la sua inchiesta che culminò, alla vigilia della visita di Paolo VI alle Nazioni Unite, nell’intervista col Pontefice, la prima concessa da un papa dopo la guerra. E Cavallari la scrisse di getto, a memoria, al tavolo di un bar di via della Conciliazione».

Il suo Novecento è stato cadenzato soprattutto da incontri con grandi personaggi, dalla firma di importanti trattati, ma soprattutto di una vita spesa nella veste di diplomatico della Santa Sede e pastore. Che cosa ricorda di quegli anni e quando incominciò veramente il disgelo tra l’Urss e il Vaticano?

«Il Concilio stesso, ma anche l’enciclica Pacem in Terris aiutò in quegli anni a cambiare il clima con l’Unione Sovietica e ad aprire degli spiragli di dialogo. Certamente una figura carismatica e di grande finezza intellettuale come il futuro cardinale Agostino Casaroli fu tra gli architetti di questo “disgelo”, condotto con una diplomazia dei piccoli passi, ma anche con la speranza delle cose possibili, come fu in un certo senso l’Ostpolitik. Penso, per esempio, al suo viaggio nel 1963 da Vienna e Budapest, o alla prudenza e pazienza che ebbe nelle situazioni difficili. Se si vuole ricavare il senso della diplomazia vaticana lo si trova in quegli anni, senza i quali non si sarebbe arrivati, il 16 ottobre 1978, all’elezione di Giovanni Paolo II. Nel carisma di Karol Wojtyla si annunciava l’unità spirituale dell’Europa. Egli aveva la fede e la forza del profeta. Il suo corpo e i suoi gesti, assieme alle parole, improvvisamente univano quello che si era divaricato con la prepotenza dell’ideologia. Certamente, un’altra esperienza importante della mia vita fu di aver fatto parte della delegazione vaticana che firmò la revisione del Concordato nel 1984, e in quel frangente potei sperimentare il capolavoro di diplomazia, costruito negli anni precedenti».

Quale messaggio si sente di dare ai giovani e alla Chiesa di domani?«Credo, come già accennato, sia quello di riprendere in mano l’agenda incompiuta del Vaticano II. Molte cose lasciate in sospeso da Paolo VI sono ancora là. Ma non solo. Una sfida aperta alla cultura di oggi, forse, potrebbe essere quella di riportare la teologia nelle facoltà laiche per favorire una ricerca alimentata dal confronto delle differenze. E poi credo che sia importante sapere cogliere i segni dei tempi e di speranza che oggi sanno suscitare le giovani Chiese dell’Asia e latino-americane. Da lì forse può rinascere e rifermentare anche nel nostro vecchio e stanco Occidente il futuro del cristianesimo. Come dissi, tanti anni fa, interrogato da un giornalista, sarebbe bello un giorno non lontano poter celebrare proprio in Cina la Giornata mondiale della Gioventù… Un sogno che speriamo diventi realtà».​

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