venerdì 1 aprile 2022
A 30 anni dalla guerra in Bosnia un libro ricorda i 155 reporter uccisi mentre ne raccontavano gli orrori. Morti rimaste quasi tutte impunite. Tra loro gli italiani Puletti, Luchetta, Ota e D'Angelo
L'ingresso del campo di concentramento  di Mamjaca  dove nel 1992 sono stati rinchiusi oltre 3.500 prigionieri

L'ingresso del campo di concentramento di Mamjaca dove nel 1992 sono stati rinchiusi oltre 3.500 prigionieri - Ansa

COMMENTA E CONDIVIDI

Il primo giornalista che cadde nel conflitto dell’ex Jugoslavia si chiamava Egon Scotland. Era un reporter tedesco di 43 anni, inviato del quotidiano Süddeutsche Zeitung. Fu colpito dai paramilitari serbi in Croazia, il 26 luglio 1991, mentre cercava di raccontare la fuga dei civili di fronte ai primi sussulti dell’orrore balcanico. Finora è anche l’unico giornalista assassinato in quegli anni per il quale sia stata fatta giustizia, condannando i responsabili. Le guerre nei Balcani sono state tra le più letali della storia per i giornalisti: alcuni divennero un 'danno collaterale' cadendo in attacchi indiscriminati contro i civili, oppure furono colpiti dai cecchini mentre raccontavano gli scontri in prima linea, altri sono stati uccisi nelle strade delle loro città, fuori dalle loro case o nei loro stessi uffici. Come Kjasif Smajlovic, che non lasciò Zvornik quando la città al confine con la Serbia fu stretta sotto l’assedio delle truppe irregolari serbo-bosniache. Smajlovic era un veterano e scelse di restare al lavoro fino all’ultimo per inviare le proprie corrispondenze a Oslobodenje, il più importante quotidiano bosniaco. In quelle che furono le sue ultime settimane di vita si ritrovò a fare l’inviato di guerra dalla sua stessa redazione, fino al 9 aprile 1992, quando fu barbaramente ucciso dai paramilitari serbi mentre si trovava ancora seduto alla sua scrivania. Pochi mesi dopo fu spenta anche la voce di Sinisa Glavasevic, il coraggioso giornalista trentunenne che dai microfoni di Radio Vukovar trasmetteva nell’etere resoconti quotidiani dalla città-martire croata, offrendo un conforto e una speranza di salvezza alla popolazione sotto assedio. Molti di quelli che avrebbero potuto fuggire decisero di rimanere per continuare a raccontare, sentendo il dovere di informare la popolazione e il resto del mondo su ciò che stava accadendo.

«Combattere per la verità divenne per alcuni una forma di resistenza, un atto dovuto nei confronti della propria gente», ci dice Marija Ristic, direttrice del Birn (Balkan investigative reporting network) di Sarajevo, un’organizzazione di reporter indipendenti che da quasi due decenni promuove la libertà di espressione, la democrazia e i diritti umani nell’area balcanica. In occasione del trentennale dell’inizio della guerra di Bosnia il Birn ha realizzato un volume in lingua inglese dal titolo Last Despatches (288 pagine, euro 30,00) che documenta con particolari inediti le storie dei reporter uccisi nei conflitti balcanici. «Furono almeno 155 i giornalisti, i fotografi e gli operatori dei media che persero la vita in quelle guerre, tra il 1991 e il 2001», spiega Ristic. «Un numero enorme causato dal massiccio coinvolgimento di paramilitari spinti dall’odio nazionalista e motivati dal desiderio di sterminare etnie percepite come "nemiche". I giornalisti vennero molto spesso considerati bersagli, al pari dei civili». Anche l’Italia pagò un tributo di sangue altissimo in quegli anni. Il 29 maggio 1993 un convoglio di aiuti della Caritas bresciana proveniente da Spalato stava percorrendo la strada di Gornji Vakuf per portare aiuti umanitari agli abitanti della cittadina bosniaca di Zavidovici quando si imbatté nei Berretti verdi, una formazione paramilitare musulmana guidata dal feroce comandante "Paraga". Il giornalista free-lance Guido Puletti fu ammazzato a sangue freddo insieme a due cooperanti italiani, Sergio Lana e Fabio Moreni. Pochi mesi dopo, il 28 gennaio del 1994, un colpo di mortaio uccideva a Mostar Marco Luchetta, Alessandro Ota e Dario D’Angelo, inviati in città dalla Rai di Trieste per realizzare uno speciale sui bambini vittime della guerra. La granata che cancellò le loro vite in un istante risparmiò invece il piccolo Zlatko Osmanovic, che si salvò grazie a loro.

«Alcune strutture dei media furono prese di mira deliberatamente per cercare di controllare la narrazione del conflitto o perché erano considerate canali della propaganda nemica», aggiunge Ristic. «È il caso della torre della televisione di Sarajevo, che venne compita quasi subito dalle forze serbe nel maggio 1992, per interrompere le trasmissioni e impedire che la verità sull’aggressione della Bosnia potesse raggiungere il resto del mondo. Ma anche del quartier generale della radio televisione serba di Belgrado, che alcuni anni dopo fu oggetto dei bombardamenti della Nato perché ritenuta organica all’apparato di potere di Milosevic». Il personale della stazione radio-tv non riuscì a evacuare in tempo e sedici persone morirono sotto le bombe. Last Despatches nasce da un lavoro investigativo svolto sui singoli casi e ha il merito di sottrarre all’oblio alcune storie dimenticate di giornalisti presi di mira per vendetta politica, come quella di Slavko Curuvija, il redattore serbo oppositore di Milosevic che l’11 aprile 1999 fu ucciso a colpi d’arma da fuoco da due uomini a volto coperto davanti alla sua casa di Belgrado. Nel dicembre scorso la magistratura serba ha confermato che il crimine fu organizzato e portato a termine da agenti dello Stato. Il libro denuncia anche la sostanziale impunità per quelle morti, che è perdurata per decenni dopo la fine delle guerre balcaniche. «In molti casi è mancato l’interesse politico a trovare e punire i responsabili – sostiene Ristic –. In altri, la negligenza che ha impedito di fare giustizia deriva dal fatto che le loro morti sollevano ancora interrogativi scomodi che riguardano i più alti livelli di potere in alcuni paesi balcanici». Pochissimi omicidi di operatori dei media sono stati adeguatamente indagati e ad oggi è arrivata una sola condanna: quella del comandante paramilitare serbo Dragan Vasiljkovic, ritenuto colpevole di crimini di guerra contro prigionieri di guerra e civili, tra cui un giornalista. Ma pur in assenza di giustizia, Last Despatches non rappresenta un semplice atto di commemorazione. I proventi raccolti dalle vendite del volume serviranno infatti a finanziare un nuovo spazio museale dedicato ai giornalisti e alla libertà d’informazione a Sarajevo. «Contiamo di aprirlo entro la fine di quest’anno – assicura Ristic –. Sarà diviso in tre sezioni distinte. La prima incentrata sul ruolo dei media e della propaganda nei contesti bellici, un’altra sui giornalisti uccisi in guerra. L’ultima racconterà invece com’è cambiato il nostro lavoro in epoca contemporanea e le sfide etiche che ci troviamo di fronte».

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: