sabato 5 febbraio 2022
In “L’aria che mi manca” l’editore brasiliano Luiz Schwarcz racconta l’uscita dal silenzio di un “parental child”, un figlio che si è presto dovuto sobbarcare traumi e non detti dei genitori
Luiz Schwarcz

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È vulgata comune nella anamnesi psicoanalitica l’attribuire la sindrome ansiosa adulta a un eccesso di responsabilizzazione subita nell’età infantile. I figli che da piccoli sono stati considerati troppo (e troppo in fretta) più grandi della loro età, che sono stati costretti ad accudire i loro fratelli come ne fossero i genitori, o i genitori stessi secondo un’anacronistica e poco sana inversione di ruoli, si trovano poi, nella maturità, a soffrire di ansia, eccesso di controllo, spasmodico bisogno di un ossessivo monitorare la realtà secondo un’illusione di dominio del reale che ripeta in forma attiva quella troppa assennatezza passivamente accolta e introiettata da bambini. Parental child nel linguaggio tecnico, quel bambino che, in una sciagurata capriola, sia padre o madre di suo padre o di sua madre, o di entrambi. Tra gli altri pesi che il parental child si trova a dover portare, si conta l’essere erede, e dunque trasmettitore involontario, di vicende della famiglia che non sono la sua propria storia, ma che come familiare 'cresciuto troppo in fretta' egli porta su di sé: esistenze e tracce del passato che gli gravano sulle spalle, per molti versi ostacolandogli di percorrere e compiere il proprio percorso personale. Se poi quelle vicende sono molto traumatiche, il nodo si ispessisce, allontanando la possibilità di una vita serena, gratificante, riuscita. Di questo racconta l’autobiografia di Luiz Schwarcz, fondatore della celebre casa editrice brasiliana Companhia das Letras, L’aria che mi manca (traduzione di Roberto Francavilla, Feltrinelli, pagine 170, euro 16,00). Una cronaca/ confessione su come e quanto un portato ereditario ingombrante in termini psicoanalitici (psicogenealogici, correggerebbe qualcuno) possa occupare spazio, con il passare del tempo sempre più spazio, sino a causare veri e propri disturbi della personalità, oltre che uno squilibrio catastrofico nell’andamento della vita adulta. Eloquente il sottotitolo del libro: 'Storia di una corta infanzia e di una lunga depressione'. Troppo breve l’età dell’incoscienza, troppo protratta, sino all’insostenibilità, quella della consapevolezza di un passato che non solo non passa, anche, non lascia tregua. Schwarcz è figlio unico di due ebrei della diaspora approdati in Brasile dopo infanzie traumatiche in modo terribile: il padre, ungherese, si è salvato perché il padre lo ha lanciato giù da un 'treno della morte' diretto al campo di Bergen-Belsen, il padre (nonno di Luiz) restando sul convoglio e lasciando la vita per sempre. La madre, croata, bambina piccolissima ha dovuto cambiare nome e identità. Parental children dunque i genitori per primi, loro malgrado rendendo perciò l’infanzia e l’adolescenza del figlio una terra brulla e pervasa di troppa responsabilità («non deludere i miei genitori era la mia principale preoccupazione»). Nel continuo tentativo di un maturo riconnettersi alla genealogia familiare, portando su sé stesso ogni peso, ogni non detto, ogni colpa di verità taciuta, il giovane Luiz cerca sé stesso: a San Paolo frequenta la sinagoga e accompagna il suo rabbino a un convegno in Belgio dove sono presenti Begin e Golda Meir. Tradisce la tradizione affaristica della famiglia per consacrarsi alla produzione di libri, sua grande passione. Ma intanto, nelle pieghe del silenzio, la sua personalità si scinde, trovando forma nell’antinomia tra nome e soprannome. Luiz e Luizão: da un lato un uomo arrogante, sin troppo sicuro di sé nell’affermarsi nel mondo del lavoro come raffinato editore di successo, dall’altro (il lato del soprannome) qualcuno abitato da una rabbia violenta e incontrollata, che cresce dentro, lievita e deflagra, portando crisi, devastanti per sé e per i più cari. Oltre che racconto di una vita nel suo comporsi esteriore, di un grande disagio a lungo tenuto nascosto, L’aria che mi manca è cronaca sincera in maniera spietata di un disturbo bipolare. Storia molto toccante di un’uscita dal silenzio, secondo un ritmo sincopato che invece nel silenzio ha trovato andatura, di una personalità che dal silenzio trae forma, tono, indole (come editore e dunque come fine lettore, Schwarcz predilige autori che lavorano soprattutto sul non-detto). «Il mio silenzio come figlio e nipote unico, in ansia per la fragilità dei miei genitori», ecco la grana di questa voce, la voce di Luiz Schwarcz. Il quale cita un samba di Paulinho da Viola per evocare «l’assenza di melodia o parola per non perdere il valore». E negli abissi di quell’assenza di suoni, ecco che questa storia di un parental child e del suo profondo viaggio nella depressione si delineano e riescono a raccontarsi, senza indulgenze, senza autocompiacenze, senza indugi. In nome della verità piuttosto, quella che salva perché dopo essere stata detta, minimamente acquietata può tornare a tacere.

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