lunedì 30 luglio 2012
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Qui li chiamano cheats, imbroglioni. Quelli che volevano correre più forte, ma con l’inganno. Una volta presi, hanno pagato. Ora rieccoli, non si sa quanto ripuliti e pentiti. Sono l’esercito degli ex dopati: mai un’edizione dei Giochi ne ha schierati al via così tanti. Monito perenne al fatto che condannare chi ha già scontato il proprio errore è sbagliato, ma che il passato – come il sospetto – è difficile da cancellare. Ieri il kazako Aleksandr Vinokourov si è addirittura preso l’oro del ciclismo su strada: nel 2009 era stato squalificato per due anni (trasfusione di sangue illegale nel Tour de France 2007). Doping, parola infernale. Nemica prima e compagna fedele dei Giochi. L’altra Olimpiade. Non ci sono medaglie da prendere, semmai da togliere. La disciplina esiste da sempre, ma non entrerà mai ufficialmente nel programma a cinque cerchi. Si chiama rincorsa tra guardie e ladri, tra medici e atleti disonesti. Come Hysen Pulaku, albanese, sollevatore di pesi. È lui il primo squalificato di Londra 2012. È stato trovato positivo allo stenozolol, uno steroide anabolizzante, dopo un controllo del 23 luglio scorso. Ieri il Cio lo ha cacciato. Era successo pochi giorni fa anche a Mariem Alaoui Selsouli, marocchina, 28 anni, tra le favorite per i 1.500, fermata da un controllo positivo prima di cominciare la sua corsa all’oro. Pure lei recidiva: era stata fermata già per due anni nel 2009, ora rischia la squalifica a vita. Chi vigila sull’onestà dei Giochi è uno squadrone di 180 tecnici rinchiusi nel laboratorio antidoping della Glaxo (distaccamento olimpico del Drug Control Center), agli ordini del professor David Cowan e di Francesco Botrè, sesta Olimpiade all’attivo, il chimico italiano capace di rimettere in piedi il laboratorio di Roma dopo lo scandalo dell’Acquacetosa. A Londra il suo staff esaminerà prima della fine dei Giochi: 6.200 provette, contro le 4.700 di quattro anni fa a Pechino. Ma il trend delle positività sotto Olimpiadi è statisticamente in calo: dai 26 casi di Atene 2004 si è passati ai 14 di Pechino 2008 (più 6 cavalli dell’equitazione, e 5 casi postumi). Ma il dato, appunto, è provvisorio, perché l’Agenzia Mondiale antidoping (la Wada) ora conserva i test per otto anni, per poterli rifare alla luce delle ultime scoperte, e condannare anche molto tempo dopo le gare. Come successe al nostro Rebellin, al quale la Wada tolse l’argento olimpico otto mesi dopo la fine dei Giochi. Più controlli uguale meno positivi. I dati in mano al Cio, confermano che il trend è stabile. Ma non è certo il tempo di pensare che la partita sia equilibrata. Da Ben Johnson in poi, ultimo caso di campionissimo beccato al test fatale, i pesci caduti nella rete sono stati medio-grandi o piccoli. Ci si dopa per avvicinarsi al podio, a quel momento di gloria. E, magari, lontano dai Giochi. Ma nemmeno le leggi aiutano. Con la sentenza del Tas che ha reso nulla la regola stabilita dall’Esecutivo del Cio mirata a proibire l’accesso ai Giochi agli atleti che abbiano subito una sospensione per doping pari o superiore ai sei mesi, a Londra hanno avuto via libera per i Giochi, infatti, tutti gli atleti che non abbiano avuto una sanzione a vita. I nomi più noti sono quelli dello spagnolo Valverde (ciclismo) e del velocista Usa Lashawn Merrit. Ma qui rientrano in gioco anche vecchie “glorie” del doping, come Justin Gatlin, americano pure lui, oro ad Atene 2004 nei 100 metri. Il suo è un caso emblematico: squalificato nel 2006 per 4 anni (steroidi), scontata la squalifica è tornato in pista e poche settimane fa ai Trials Usa, a 30 anni suonati, ha vinto la gara regina dell’atletica in 9’’80. Meglio di lui quest’anno solo un certo Usain Bolt (9’’76 a Roma e 9’’79 a Oslo). Gatlin si è sempre proclamato innocente. Il suo doping? «Un sabotaggio», disse. Peccato che il suo allenatore fosse Trevor Graham, che in carriera ha avuto otto suoi atleti trovati positivi e squalificati. Anche gli inglesi si sono adeguati alla sentenza del Tas e si ritrovano Dwain Chambers, 34 anni, squalificato per due anni per doping. La sua carriera sembrava finita, ha provato a riciclarsi con il football Usa, senza successo. Ora rientra ai Giochi: disputerà la staffetta 4x100, e anche i 100, addirittura invitato dal Comitato olimpico britannico nonostante non avesse ottenuto il tempo minimo di qualificazione. Sarebbe una questione di rigore. In questo l’Italia non ha eguali. Il Coni non transige: esagera magari con la severità, ma con il metro contrario non si va da nessuna parte. Il ciclismo insegna: scottato dal caso Rebellin a Pechino, Alessandro Petacchi (salbutamolo, squalificato per un anno dopo il Giro 2007) ai Giochi non ci sarebbe venuto comunque dopo la caduta al Tour, ma, pur essendo ancora uno dei più forti sprinter italiani, già prima aveva dovuto dire addio alla Nazionale in virtù di una delibera della Federciclismo che vieta la maglia azzurra a tutti i sanzionati per doping dai sei mesi in su. Questione di serietà, appunto. Che purtroppo non è da tutti.
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