martedì 30 giugno 2015
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Il Giappone è forse il Paese dell’Estremo Oriente dove gli sforzi titanici di evangelizzazione, iniziati con san Francesco Saverio che sbarcò sulla spiaggia di Kagoshima il 15 agosto 1549, hanno lasciato meno traccia, almeno in apparenza. Oggi i cattolici sono meno dello 0,5% della popolazione. Cinque anni fa l’allora ambasciatore nipponico presso la Santa Sede, Kagefumi Uenoha, ha tenuto a Roma una conferenza di rara chiarezza sui motivi culturali che rendono il Paese del Sol Levante un terreno duro per il messaggio cristiano. Ma non è solo una questione di scarsa compatibilità di pensiero. La violenza che in quelle lande i missionari e i credenti hanno incontrato ha avuto pochi paragoni nella storia. Nelle cicliche ondate di repressione anticattolica tra il XVI e XVII secolo si passò dalle crocifissioni, alle decapitazioni, a forme di tortura sempre più sofisticate per terrorizzare e indurre all’apostasia. Il Giappone sotto il pugno di ferro degli shogun Tokugawa visse una chiusura totale al mondo esterno, per più di duecento anni, con i cristiani che finirono in clandestinità e tennero viva la fede senza clero e senza sacramenti a parte il battesimo. E se lo scorso marzo si sono celebrati i centocinquant’anni di uscita dal nascondimento della Chiesa nipponica, pochi hanno ricordato che le persecuzioni, con arresti e deportazioni, a fasi alterne a seconda dell’intensificarsi del fervore nazionalistico, continuarono fino agli anni Venti del Novecento.In questo scenario, che qualcuno ha rappresentato come una plurisecolare salita sul Golgota, sono stati però altrettanto folgoranti le storie di santità e abnegazione. Una di queste, ancora poco nota da noi, è sicuramente quella del medico Takashi Nagai, che ha avuto la singolarità di diventare estremamente popolare anche fra i giapponesi non cristiani e di aver segnato il riscatto del Giappone dopo la sconfitta nella seconda guerra mondiale.Nagai nacque nel 1908 in una famiglia shintoista di condizioni modeste, ma versata nell’arte della medicina tradizionale e con antenati samurai. Indirizzato verso gli studi superiori, dimostrò talento e un’apertura intellettuale non comune, che lo portò, mentre conseguiva la laurea in Medicina a Nagasaki, a immergersi da lettore onnivoro nella cultura europea, soprattutto francese. Assorbì il sentire positivista allora in auge e abbracciò l’ateismo, che però fu incrinato dalla morte della madre, nel 1930, e dal suo sguardo sul letto di morte, che trafisse il figlio facendogli percepire la realtà dell’anima. Il giovane Nagai ricevette da un professore universitario un altro seme che sarebbe germogliato nel tempo: la conoscenza dei Pensieri di Blaise Pascal. Per studiare più da vicino la religione cristiana chiese quindi alloggio a una famiglia di Nagasaki discente da generazioni di kakure kirishitan, di cristiani nascosti. Finì per sposarne la figlia Midori e ricevette il battesimo nel 1934. Paul Glynn, un religioso marista australiano, ha narrato il viaggio esistenziale di questo giapponese sospeso tra Oriente e Occidente, tra lo spirito del Bushido e gli incontri con san Massimiliano Maria Kolbe, in un libro bellissimo, uscito nel 1988 in lingue inglese e pubblicato ora dalle edizioni Paoline con il titolo di Pace su Nagasaki. Il medico che guariva i cuori (pagine 300, euro 17). È il racconto di una vita spesa nella ricerca della verità, di una storia d’amore e di ascesi, che si conclude con le vicende che resero Nagai celebre in patria. Costui conobbe gli orrori della guerra ancora prima di finire gli studi, venendo reclutato per la campagna militare in Manciuria nel 1932. Al ritorno divenne un pioniere della radiologia, docente universitario a Nagasaki, ammalandosi di leucemia a causa delle ore e ore spese fra le radiazioni. La bomba atomica che cadde su Nagasaki il 9 agosto 1945 lo risparmiò miracolosamente, mentre annientò gran parte della comunità cattolica raccolta nel quartiere di Urakami. Nagai perse amici, conoscenti e soprattutto la moglie Midori, rimasta incenerita nell’esplosione. Piegato nel fisico, ma non nella fede e nel carattere, passò gli ultimi anni della sua vita, fino al 1951, a letto, in una capanna che fece ricostruire sulle rovine della sua casa. Scrisse intensamente, sulla sua vita e sull’esperienza apocalittica della bomba atomica.  Un suo libro, Le campane di Nagasaki, divenne un bestseller dopo le iniziali diffidenza del governo e della censura degli americani, e ne fu tratto un film di grande successo. Cosa trovò di tanto grande il Giappone ferito e umiliato nelle parole di quel kirishitan infermo e recluso? Trovò una spiegazione cristiana di una sofferenza e di una sconfitta di tali dimensioni che l’etica tradizionale nipponica  non riusciva ad affrontare; e un invito sublime e rivoluzionario a trasformare l’odio e il sangue che erano stati versati in un nuovo inizio all’insegna della pace. Nagai in questo ebbe un impatto sull’opinione pubblica che è stato paragonato a quello di Gandhi in India. Anche se la pace che predicò, a differenza del Mahatma, era solo quella dell’Agnello immolato.
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