sabato 14 ottobre 2023
A 80 anni dal rastrellamento del ghetto Roma la storia del ferroviere Bolgia che alla stazione Tiburtina spiombava i carri diretti ai campi di sterminio
Il rastrellamento degli ebrei nel ghetto di Roma in una scena del film “L'oro di Roma” di Carlo Lizzani, 1961

Il rastrellamento degli ebrei nel ghetto di Roma in una scena del film “L'oro di Roma” di Carlo Lizzani, 1961 - Archivio Avvenire

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È rimasto nella storia della capitale come “l’angelo del tiburtino”. Una vita spesa per gli altri, quella di Michele Bolgia, ma soprattutto per centinaia di ebrei che grazie al ferroviere scamparono ai “treni della morte”. Era il 18 ottobre 1943 quando dal primo binario della stazione ferroviaria di Roma Tiburtina, stipati in un convoglio composto da 18 carri bestiame, opportunamente piombati col filo spinato, più di mille ebrei romani, intere famiglie composte da uomini, donne, vecchi e bambini in tenera età, fra i quali anche un neonato, rastrellati in tutta la città all’alba del 16 ottobre, furono strappate dalle loro case per essere deportate nei campi di sterminio di Auschwitz-Birkenau.

«Di tale nucleo solo sedici uomini ed una donna scamparono all’immane eccidio, e fu proprio grazie a loro che la memoria della Shoah è rimasta viva nell’immaginario collettivo, testimone di una barbarie senza precedenti che lordò di sangue le vie della nostra Capitale, per non parlare delle coscienze dei tanti che tanto avrebbero potuto fare, ma nulla fecero per salvarli - sottolinea il colonnello in ausiliaria della Guardia di Finanza, Gerardo Severino, storico militare, che ha scoperto la storia negli archivi -. Tutto ciò avvenne nel bel mezzo della tragedia della Seconda guerra mondiale, nell’orrido della quale, scelte incaute e bellicose avevano fatto precipitare il meglio della nostra gioventù. Quella stessa guerra, ritenuta breve e utile per sedersi fra i vincitori al tavolo della pace, si era già rivelata un inferno sin dalle sue prime battute, facendo precipitare, in seguito, la nazione nel baratro più buio, ove carneficine e incredibili orrori saranno pane quotidiano sino all’aprile-maggio del 1945».

Da quell’infausto giorno la Stazione Tiburtina, per anni luogo di transito di pacifici cittadini, di turisti e di quanti lavoravano a Roma, fu teatro della tracotanza nazi-fascista e soprattutto di altri e poco conosciuti “viaggi del non ritorno”. Da essa molti altri treni merci partirono, spesso per un’ignota destinazione, con a bordo militari sbandati, giovani renitenti alla leva, altri ebrei scampati al primo rastrellamento, ma soprattutto tante e tante braccia sottratte alle proprie vite normali per essere duramente utilizzate come bassa mano d’opera nella lontana Germania.

Fra di essi il merci n. 64155, un treno composto da 10 carri che il 4 gennaio 1944 portò dapprima ad Innsbruck e successivamente in altri campi di sterminio oltre 290 prigionieri, fra ebrei e rastrellati per motivi politici, destinati ai campi di lavoro tedeschi.

«Ma lo stesso luogo della vergogna rappresentò – ribadisce Severino – anche l’orgoglio della riscossa nazionale, perché fu proprio in tale stazione che ebbero luogo le prime manifestazioni resistenziali, molte delle quali ascrivibili all’eroicità degli stessi ferrovieri italiani, primo fra tutti il guardasala Michele Bolgia, al valore delle Fiamme Gialle che vi prestavano servizio di vigilanza, ma anche alla rischiosissima collaborazione di alcuni ferrovieri austriaci ai quali veniva demandato l’ingrato compito di condurre i convogli della morte».

Le azioni umanitarie, delle quali si rese protagonista il ferroviere Michele Bolgia, «si concretizzarono durante il periodo di Roma Città Aperta, allorquando il ferroviere entrò a far parte dell’organizzazione clandestina riconducibile al tenente Alaydin Korça, un ventiseienne albanese in servizio nella Guardia di Finanza dal 1939 e che già prima dell’armistizio si trovava in forza presso la Legione allievi di Roma – sottolinea il colonnello Severino che fra l’altro da direttore del Museo storico della Guardia di Finanza firmò la proposta della medaglia d’oro al merito civile di cui fu insignito l’eroico ferroviere -. Esse si verificarono dall’autunno del ’43 al marzo del ’44, in un contesto storico nel quale Roma, come s’è detto, si trovava alla mercé delle truppe d’occupazione tedesche».

In pratica Bolgia, insieme ai finanzieri antifascisti spiombò i convogli dei rastrellati per farli fuggire e ciò avvenne all’indomani dell’arrivo in massa dei tedeschi, nella seconda metà del settembre 1943. Vittime dei rastrellamenti anche molti inermi cittadini, oltre che soldati sbandati e renitenti alla leva della Repubblica sociale italiana. I nazisti erano “a caccia” di manodopera, il cosiddetto “lavoro coatto”, necessario sia per fini militari che industriali, per i quali necessitavano grosse masse di manodopera, potendo così mantenere in continua efficienza la poderosa macchina bellica tedesca. È qui che sviluppa l’azione di Bolgia e dei finanzieri, aiutati dai ferrovieri austriaci.

Bolgia, nato a Orbetello, in provincia di Grosseto, si era trasferito a Roma per svolgere il suo lavoro di ferroviere inconsapevole che sarebbe diventato l’uomo che avrebbe fatto la differenza in un uno dei periodi più bui della storia d’Italia. Un coraggioso eroe della Resistenza il cui impegno umanitario venne scoperto dalla famiglia solo dopo molti anni. Tante le attività clandestine di Michele, che non solo spiombava i treni per salvare i deportati, ma raccoglieva i biglietti che lasciavano cadere dai carri al fine di consegnare i messaggi ai familiari dei prigionieri, riuscendo addirittura in qualche occasione a portare in salvo bambini ebrei per affidarli alle cure di religiosi romani. Una storia, quella di Bolgia che si intreccia con l’azione di centinaia di finanzieri che salvarono gli ebrei a Roma come ricostruito nel libro L’Angelo del Tiburtino (Chillemi, 2011) firmato dal colonnello Severino. Bolgia venne catturato il 14 marzo 1944 e dichiarato morto il 24 marzo dello stesso anno. Il corpo fu poi ritrovato tra gli altri nelle Fosse Ardeatine.

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