mercoledì 27 giugno 2018
Tra gli intellettuali che animarono il dibattito culturale negli anni '60-'70 muovendosi fuori dai partiti della Sinistra tradizionale, il fondatore della rivista. Un saggio ne ripercorre la vicenda
Piergiorgio Bellocchio, fondatore, con Grazia Cherchi, dei "Quaderni piacentini"

Piergiorgio Bellocchio, fondatore, con Grazia Cherchi, dei "Quaderni piacentini"

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La migliore storia della Sinistra intellettuale italiana del secondo Novecento è stata espressa dalla vicenda di non poche riviste eretiche: ed eretiche rispetto alle posizioni assunte -spesso in nome d’una spietata realpolitik- dal Partito comunista. Sin da subito: come testimonia “Il Politecnico” di Elio Vittorini, il quale nel 1946, in polemica con Palmiro Togliatti, si rifiutava all’idea che gli scrittori dovessero «suonare il piffero della rivoluzione», mentre sosteneva il primato della Cultura sulla Politica. Ma si potrebbe citare “Officina” di Francesco Leonetti, Pier Paolo Pasolini e Roberto Roversi, che, nata nel 1955, durò sino al 1959. E che dire della bellissima “Tempo Presente”, la rivista fondata e diretta da Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone, che fu pubblicata dal 1956 al 1968?
A rinforzarmi nella convinzione, arriva ora, per la veronese Ombre corte, il libro di Giuseppe Muraca, Piergiorgio Bellocchio e i suoi amici. Intellettuali e riviste della sinistra eterodossa (Pagine 128, euro 12,00), che ruota appunto attorno alla ormai leggendaria “Quaderni piacentini”, fondata a Piacenza da Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi nel 1962 - sotto l’influenza d’un marxista eterodosso come Franco Fortini, che aveva già rotto col Partito socialista -, ai quali si aggiunse nel 1966, di ritorno dalla Francia, a costituire un collaudatissimo “triunvirato”, Goffredo Fofi, il quale però, conosciuto a casa di Raniero Panzieri (coi suoi “Quaderni Rossi” altro fondamentale interlocutore), collaborava già dal 1963.
Quei “Quaderni piacentini” inizialmente autofinanziati che, con alterne vicende, furono stampati sino al 1984, nonostante gli ancora ottimi risultati di vendita (tra le 4-5mila copie), sempre fedeli a una linea di autonomia critica e di assoluta indipendenza nei confronti di qualsiasi organizzazione politica, tra le tante poi prosperate dentro quella Nuova Sinistra che nasceva dalle convulsioni e dalla crisi del Movimento studentesco. Quei “Quaderni piacentini” - aggiungo - che accompagnarono con un serrato dibattito intellettuale la storia dei gruppi intellettuali che, guardando Cina Cuba e Vietnam, si mossero al di fuori dei partiti politici della Sinistra tradizionale e delle strutture del Movimento operaio: nei modi d’un marxismo critico che molto doveva anche alla Scuola di Francoforte, soprattutto a Herbert Marcuse. In ciò la rivista sperimentando come un sostanziale movimento di sistole e diastole: prima, intorno al 1966, con una crescente politicizzazione, nel segno d’una perdita di centralità – sono parole di Muraca – degli «interessi specificatamente letterari» ed «etico-culturali» a vantaggio della «ricerca teorico-politica»; poi, all’inizio degli anni ’80, con un ritorno a temi che alle origini ne «avevano caratterizzato la fase più innovativa», quando cioè, dopo la momentanea sospensione della pubblicazione, il comitato di direzione si allarga, tra gli altri, a Michele Salvati, Federico Stame, Bianca Beccalli, Giovanni Jervis e Alfonso Berardinelli, mentre escono completamente di scena Francesco Ciafaloni, Carlo Donolo e Luca Baranelli.
Il pregio del libro di Giuseppe Muraca sta proprio qui: nella doviziosa documentazione che ci mette a disposizione, a cominciare da quel capitolo intitolato “Piergiorgio Bellocchio e gli altri”. Frammenti, interamente composto di citazioni dei protagonisti, scelte per altro assai bene. Oltre al disegno d’insieme, che non dimentica nessun personaggio di quell’impresa, anche di seconda fila e di poco coinvolgimento, mentre sottolinea il ruolo importante - accanto ovviamente a quello cruciale dei triunviri, cui sono dedicati specifici capitoli - di figure quali i già citati Fortini e Panzieri, ma anche come Danilo Montaldi (ammiratissimo da Bellocchio: «il migliore esempio di libertà e coerenza che io abbia incontrato nel mondo intellettuale»), Edoarda Masi, Cesare Cases, Sebastiano Timpanaro, Giovanni Giudici, Giancarlo Majorino e Giovanni Raboni.
Il limite, invece, potrebbe stare in una certa mancanza d’amalgama tra le diverse parti che lo compongono: si sente, infatti, l’origine occasionale di recensione di taluna di queste, che, per altro, ha impedito a Muraca – come lui stesso, con onestà, ammette – di eliminare qualche ripetizione.
Il titolo mette subito in evidenza che la vicenda di questo straordinario sodalizio intellettuale coincideva esattamente con la storia d’una grande amicizia. Ecco perché mi sarei aspettato (l’ho fortemente sperato) che Muraca avesse prediletto la disposizione al ritratto invece che la storia dell’ideologia (prima ancora che delle idee). La sua ricostruzione, per dirla chiaramente, è tutta interna a quell’esperienza ormai trascorsa, rilutta alla storicizzazione, resta volutamente militante, per approdare, appunto, a un giudizio etico e politico, prima che storico, diciamo pure apologetico, a rimarcare che ci si trovi di fronte all’«impresa intellettuale più importante della nuova sinistra italiana, una delle riviste più significative del neo-marxismo internazionale degli anni sessanta e settanta». Il suo sforzo - notevole, bisogna dirlo - è stato, insomma, quello di rendersi il più possibile contemporaneo al dibattito (e al linguaggio) di quegli anni. Ma possiamo evitare di dirci, per fare un solo esempio, che il Fortini di queste pagine sia illeggibile, inutilizzabile, se non addirittura inutile, e detentore d’una lingua (e d’un potere) che oggi, a chi non conoscesse quella storia e quei codici, potrebbe risultare del tutto incomprensibile e involontariamente grottesca? Un’impostazione confermata dalle pochissime e distratte pagine che Muraca dedica a “Diario”, la rivista che Bellocchio fece interamente a quattro mani, dal 1985 al 1993, con Alfonso Berardinelli, il cui primo numero accampava niente meno che uno scritto di Kierkegaard (ma Montaigne o Kraus sarebbe stato lo stesso). Una rivista in cui il limpido, elegantissimo, disingaggiato Bellocchio diventa finalmente se stesso, senza più remore o obblighi politici.

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