giovedì 1 settembre 2011
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Nel paese di Monteveglio i cittadini organizzano gruppi d’acquisto per comprare pannelli solari, allevano polli secondo i principi della permacultura e usano il “piedibus” (progetto nato in Danimarca per promuovere l’esercizio fisico dei bambini che vanno a scuola in gruppo, accompagnati da due adulti, seguendo un percorso stabilito e raccogliendo “passeggeri” alle fermate a orari prefissati). Questo borgo sulle colline bolognesi è il primo in Italia dove vige una delibera comunale che dichiara “politica prioritaria” la “fuoriuscita dal petrolio e dai combustibili fossili”, con l’obiettivo di diventare “un Comune Post Carbon”. Monteveglio è il pioniere in Italia del movimento Transition Towns (Città di transizione), avviato nel 2005 a Kinsale, in Irlanda, dal giovane ex pubblicitario inglese Rob Hopkins. Che un giorno, resosi conto quasi per caso dei rischi corsi da un sistema totalmente dipendente dagli idrocarburi, aveva immaginato un’alternativa. «La transizione è di per sé qualcosa che è già in corso nell’epoca che stiamo vivendo, in cui ci troviamo a dover passare dal modello di sviluppo perseguito fin ad oggi a un modello altro, come dimostrano non solo il progressivo esaurimento delle risorse ma anche fattori quali i mutamenti climatici o la fine dell’attuale sistema di gestione finanziaria globale», spiega Cristiano Bottone, tra i fondatori del nodo italiano della rete di Transizione. «Quella con la “t” maiuscola – specifica –, secondo cui il cambiamento può essere subìto passivamente oppure governato, per creare un mondo migliore: sostenibile, equo, basato sull’equilibrio tra le risorse e la nostra necessità di farne uso. La scelta sembra scontata, ma da dove partire? «Ricette preconfezionate non esistono. C’è però un approccio di base, che tenga conto della complessità del sistema e prenda a modello la natura», continua Bottone. È ciò che il movimento chiama “permacultura”, un metodo elaborato nell’ambiente agricolo ma i cui principi possono essere applicati anche alla progettazione dei processi sociali: «L’adattamento all’ambiente locale, per esempio, è essenziale per ogni attività umana. Allo stesso modo, la regola di non produrre rifiuti deve valere anche quando è una parte della società a rischiare di diventare uno “scarto” del sistema». Dalla teoria alla pratica, «i sostenitori della Transizione cercano di ridare voce alle comunità, attraverso il pensiero collettivo, per renderle protagoniste del cambiamento». A Monteveglio, ufficialmente “in Transizione” dal 2008, si organizzano corsi di allevamento e di produzione del pane, sono nati gruppi d’acquisto per comperare pannelli per il fotovoltaico e il solare termico ed esiste una “Banca della memoria”, vietata ai minori di 60 anni, per salvare i saperi tradizionali. E le iniziative si moltiplicano, non tutte inventate dai “transizionisti”: il gruppo ha sostenuto e incentivato proposte già esistenti, come il mercatino del riuso organizzato dalla comunità di Sant’Egidio, secondo il principio per cui bisogna partire dall’esistente – valorizzando talenti ed esperienze locali – e collaborare con tutti, mettendo al bando le ideologie. Fondamentale, poi è la creatività. E così, ognuna delle 20 città italiane attualmente “in Transizione” (vedi http://transitionitalia.wordpress. com) ha inventato iniziative diverse. A San Giovanni a Piro, 4000 abitanti nel parco del Cilento (Salerno), l’Istituto comprensivo Teodoro Gaza è stata la prima scuola d’Italia a inserire nel Piano dell’offerta formativa l’idea di organizzare una comunità preparata al “post petrolio”. All’interno dell’istituto (che comprende scuola dell’infanzia, primaria e secondaria), è già presente un orto sinergico e si organizzano laboratori didattici di autoproduzione e riparazione. E se a Granarolo dell’Emilia (Bologna) si lavora sulle energie rinnovabili – dal fotovoltaico all’illuminazione pubblica a LED – a Carimate, nella Brianza comasca, hanno organizzato passeggiate lungo il fiume Serenza per scoprire l’utilizzo delle erbe aromatiche. C’è chi mette in piedi cineforum a tema e chi inventa spettacoli teatrali per sensibilizzare la cittadinanza, chi fa partire un gruppo di acquisto solidale e chi impara a costruire il proprio “pollaio domestico”. In Transizione non sono solo le città: a volte si parte dai quartieri, o persino da una strada. Come è successo a Bologna, dove il comitato di via Centotrecento ha deciso di trasformare i posti auto in spazi di socialità: sono nati così “Transition pic nic” e feste per i bambini, reading letterari e conferenze. E, finalmente, gli abitanti della via hanno conosciuto i propri vicini… «È un processo contagioso», assicura Cristiano Bottone. «Chi scopre la Transizione ne rimane incuriosito, si avvicina e trova spazio, da qualunque direzione venga». Anche le istituzioni non sono rimaste immuni dal contagio. «Qualche mese fa, come rete internazionale siamo stati convocati al Consiglio d’Europa per una riflessione sulla responsabilità sociale e sul futuro del welfare in un contesto dove lo Stato conterà sempre meno». E in Inghilterra, dove le comunità in Transizione sono già una cinquantina, il governo si è interessato al movimento. «Gli amministratori vedono nella nostra esperienza opportunità che loro da soli non avrebbero, soprattutto oggi che le risorse economiche scarseggiano», spiega Bottone. «Ecco perché sempre di più siamo interpellati anche da imprenditori e associazioni di categoria. La vera sfida, però, è che le persone si coinvolgano in questo processo non solo perché conviene, ma perché hanno capito che la posta in gioco è la qualità della loro vita e hanno cambiato le proprie priorità. Solo un mutamento culturale può diffondersi a macchia d’olio e contagiare l’intera società».
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