martedì 24 dicembre 2019
Una mostra a Palazzo da Mosto ripercorre i viaggi dello sceneggiatore, scrittore e pittore, fra documenti e foto. Lo sguardo aperto, in un continuo andare e tornare dal borgo delle origini
Zavattini durante uno dei suoi voli nel mondo

Zavattini durante uno dei suoi voli nel mondo

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«Io continuo a cullare un desiderio, che fa un po’ ridere i miei amici e che sembra stia diventando una mania, e cioè il desiderio di piantare tutto (o quasi tutto) e trasferirmi a Luzzara. Luzzara è diventata la mia meta, altro che Messico, Russia, Cuba… ». Cesare Zavattini, il mondo e Luzzara, il paese in provincia di Reggio Emilia, dov’è nato il 20 settembre del 1902. Rivolgendosi al conterraneo Mario Gentilini nel 1957, lo sceneggiatore, scrittore, pittore confessa, come nonostante la «latitanza fisica», i lunghi viaggi all’estero e sia costretto all’«esilio» nelle principali metropoli italiane, la «padanità» lo richiama come una calamita. Una delle foto più belle di Zavattini (scomparso nel 1989) è di Gianni Berengo Gardin: lo ritrae mentre pedala leggero e sorridente (dimenticando i Ladri di biciclette ) per le vie del borgo delle sue origini. C’è il mondo da girare, ma ci sono sempre il Po e Luzzara nel suo orizzonte mentale. Per questo anche nell’interessante mostra a cura di Alberto Ferraboschi che a Palazzo da Mosto di Reggio Emilia (fino all’1 marzo) indaga l’internazionalità di "Zavattini, oltre i confini", in qualche modo tornano. Da qui si parte e qui si torna. Tutto comincia con una Lexikon 80 con cui scriveva i suoi testi che spaziavano dalla letteratura al cinema e con un grande autoritratto, per raccontare “Za” e il suo mondo. Con un approccio inedito che la Fondazione Palazzo Magnani con la Biblioteca Panizzi e l’Archivio Cesare Zavattini (il catalogo è di Corsiero, pagine 240, euro 25,00) hanno pensato scorrendo le centinaia di migliaia di documenti che ci ha lasciato.

I viaggi. Quelli in giro per il mondo, in tempi impregnati dal clima della Guerra Fredda e delle contrapposizioni ideologiche, per intessere relazioni internazionali, sopralluoghi per la realizzazione di progetti cinematografici, ma anche conferenze, presentazioni e confronti con scrittori e leader politici. Gli incontri con personaggi straordinari senza parlare una parola di inglese e di francese – a malapena un po’ di spagnolo –, ma comunicando al meglio il suo pensiero, con gli interpreti quando ce li aveva, a gesti, con la forza delle sue idee e soprattutto con il suo geniale estro. Senza confini, appunto. Così lo vediamo per la prima volta in Spagna, nel 1954 in un tour interessantissimo alla scoperta dell’autenticità dei luoghi, il primo «viaggio inchiesta», lontano dalle vie battute e dagli stereotipi nella Spagna franchista. E poi la Francia dove incontra René Clair, prima di intraprendere i grandi voli oltre Oceano. A Cuba si recherà più volte, incontrando Fidel Castro. E se in Messico stringerà rapporti con Diego Rivera, il colombiano Gabriel García Márquez, l’autore di Cent’anni di solitudine , consacrerà lo sceneggiatore principe del Neorealismo italiano come un riferimento per tutti: «Credo che si possa affermare che la radice del “realismo magico” del romanzo latinoamericano sia un film come Miracolo a Milano. Non c’è stato un tentativo di imitazione da parte nostra, quel cinema ci ha solo svelato una realtà che noi eravamo abituati a guardare con occhi diversi. Il “realismo fantastico” della letteratura del nostro continente l’ha inventata Cesare Zavattini».

Dall’America latina agli Stati Uniti: il primo viaggio nel 1966 con Vittorio De Sica. Il titolo di un’intervista concessa a Oriana Fallaci sull’Europeo la dice tutta su quello che pensava: «Gli americani sono matti». A chi criticò quel viaggio, pensando che fosse un piegarsi a logiche hollywoodiane, a scanso di equivoci chiarì: «Non ho attraversato l’Oceano per vendere l’anima». Il giro del mondo continua nel-l’est europeo, oltre la cortina di ferro, che indaga con una visione “laica”, perché pur essendo vicino alla sinistra, non prese mai la tessera del Pci. Ci sono testimonianze sull’Africa e il rapporto con l’ebraismo: inedita e interessante la lettera che invia nel 1954 a Otto Frank padre di Anna, chiedendo i diritti del Diario per realizzarne un film: «Devo dire che pochi libri mi sembrano come questo degni di essere divulgati con il potente mezzo del cinema». Ma il padre risponderà di avere già concesso i diritti per uno spettacolo teatrale. E non se ne fece nulla. Tutte tappe correlate da interessanti documenti fotografici, alcuni assai preziosi realizzati dal figlio Arturo (oggi 89enne), che poi sarà operatore cinematografico e direttore della fotografia, oltre che discreto depositario delle memorie del padre, custodite alla Biblioteca Panizzi. Le foto dei suoi incontri insieme a documenti e testimonianze. Che cominciano dal Po e qui tornano.

Uno scatto inedito di Gianni Berengo Gardin a Luzzara che non entrò nel libro “Un paese vent’anni dopo” (1976) in mostra a Reggio Emilia

Uno scatto inedito di Gianni Berengo Gardin a Luzzara che non entrò nel libro “Un paese vent’anni dopo” (1976) in mostra a Reggio Emilia - Gianni Berengo Gardin

Nelle prime teche, insieme alla sua borsa, il basco regalatogli dallo scrittore spagnolo Alonso Ibarrola, le tessere dell’ordine dei giornalisti e quella di Alitalia, c’è il suo primo libro Parliamo tanto di me del 1931 sull’Aldilà, i fumetti di Saturno per approdare al Po (con un reportage compiuto con il fotografo William Zanca) e a Luzzara con il celebre libro realizzato con il fotografo americano Paul Strand, Un paese (1955): «Non sapevo niente di Luzzara – scrive Zavattini nel testo – e supponevo di sapere tutto; anche per questo sono grato a Strand, di avermi obbligato a convivere per la prima volta un po’ sul serio coi miei compaesani. La cosa fu in principio faticosa e dopo meravigliosa ». Poi ci sarà il mondo. Prima di tornare a Luzzara nel 1976 con Gianni Berengo Gardin per Un paese vent’anni dopo. Che è Luzzara vent’anni dopo («Sono andato a cercare le stesse persone fotografate da Strand – ricorderà Berengo Gardin –. E tutti quanti si sono rimessi nella stessa posizione. Davanti all’obiettivo abbiamo un modo di reagire sempre uguale: si tende a dare l’immagine migliore di sé»); ma è anche il ritratto del “Za” vent’anni dopo. Di fronte alla collezione di 150 quadri (ma ne aveva 1500) tutti rigorosamente 8x10 provenienti dalla Pinacoteca di Brera di Milano – autoritratti che lui chiedeva ad artisti straordinari come Ligabue, Burri, Guttuso, De Chirico, Rotella, Depero, Munari e tanti altri – ecco le immagini inedite, con i ritratti di persone comuni, di Berengo Gardin che non entrarono nel libro ma che ora chiudono questo percorso nel mondo di Zavattini. In fondo, un’andata e ritorno da Luzzara.

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