lunedì 12 settembre 2011
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Era il tempio della filosofia. Conduceva a esso una strada sospesa sull’acropoli, dal nome unico e indimenticabile: via Monte di Dio. Non parlo di Atene antica né della Grecia. Ma di una città odierna, estremo epigono della Magna Grecia: Napoli. Ascendevo a fatica per gradoni e gradini, fra fragori e improvvisi silenzi, umili panni stesi e lavate scarpette appese ad asciugare, a purificare al cielo altri commerci immondi, quando, con stupore e incanto, fra labirintici vicoli e vie sospese, case sfatte e bambini in gioco affaccendati e schiamazzanti, si dischiuse da un basso recesso un androne spazioso, trasparente, aperto su imponenti eppure leggere scalinate barocche, elevate all’eccelso. Salivo per la prima volta a Palazzo Serra di Cassano, sede del celebre Istituto italiano per gli studi filosofici, dove sugli estremi scalini di accesso mi accolse Luigi Pareyson appellandomi, dopo breve esitazione, il proprio “nipotino”. All’Istituto si succedettero – a partire dalla sua fondazione nel 1975 a opera illuminata del mecenate della filosofia, l’avvocato Gerardo Marotta – i maggiori filosofi viventi del nostro pianeta: da Hans-Georg Gadamer (che sino all’età veneranda di cento anni tenne ogni anno un proprio seminario) e Paul Fayerabend a Eugenio Garin e Paul Oscar Kristeller, da Luigi Pareyson e Paul Ricoeur a Ilya Prigogine ed Ernesto Grassi, da Jacques Derrida ed Emmanuel Lévinas a Raymond Klibansky e Valerio Verra. Purtroppo tutti ormai scomparsi. Non c’è né c’è mai stato al mondo simile luogo, unico, in cui sia stato possibile seguire le lezioni dei maggiori filosofi, provenienti da ogni nazione, università, tradizione. Oggi non mancano di omaggiare il tempio filosofico con la loro presenza pensatori italiani del calibro di Massimo Cacciari (1944) e Gianni Vattimo (1936), Remo Bodei (1938) e Vincenzo Vitiello (1935), Umberto Curi (1941) ed Emanuele Severino (1929), Carlo Sini (1933) e Biagio de Giovanni (1931), Sergio Givone (1944) e Maurizio Ferraris (1956), Dario Antiseri (1940) e Salvatore Natoli (1942), Giacomo Marramao (1946) e Massimo Donà (1957) e altri ancora, ma sempre più rare sono le presenze straniere importanti. È solo conseguenza del quasi azzeramento dei finanziamenti pubblici, oppure scarseggia il “materiale umano”? Esistono ancora, in giro per il mondo, filosofi autentici, profondi pensatori, degni di questo nome? Lasciamo i lidi italiani, ove non mancano filosofi di estremo valore: oltre ai citati menzioniamo i decani, come Vittorio Mathieu (1923) o Carlo Arata (1924), Armando Rigobello (1924) o Manlio Sgalambro (1924), Virgilio Melchiorre (1931) o Giovanni Reale (1931), Giuseppe Riconda (1931) o Umberto Eco (1932), Giovanni Ferretti (1933) o Enrico Berti (1935). In Francia sembrerebbe particolarmente vivace il dibattito filosofico, almeno in base alla presenza editoriale e giornalistica di suoi diversi esponenti. Si pensi ai notissimi Alain de Benoist (1943), André Glucksmann (1937) e Bernard-Henri Lévy (1948), brillanti opinionisti ma deboli filosofi nella ricerca critica del vero. Oppure a Alain Badiou (1937), Jean-Luc Nancy (1940), Jean-Marc Ferry (1946) e Jean-Luc Marion (1946), autori prolifici e interessanti, i quali muovono tuttavia a stento autonomi passi che vadano oltre i grandi filosofi passati per loro di riferimento, Husserl o Heidegger, Habermas o Ricoeur. Più umilmente, Jean-François Courtine (1944) si limita a un’acuta, intelligente storiografia filosofica, che spazia da Aristotele e Suárez, sino a Schelling e Heidegger. Casi particolari, studiosi di confine, sono poi René Girard (1923), studioso che si muove tra la storia delle religioni, la critica letteraria e al’antropologia, Rémi Brague (1947), storico della filosofia araba e filosofo della religione, e François Jullien (1951), originale interprete in forma occidentale di diversi temi del pensiero cinese. Ma i pensatori più originali in Francia sono, ancora una volta, dei decani: Xavier Tilliette (1921), Edgar Morin (1921) e Pierre Legendre (1930). Il primo, gesuita e teologo, s’è dimostrato non solo il più acuto filologo e storiografo dell’idealismo tedesco, ma ha nel corso degli anni elaborato una propria filosofia cristiana, in dialogo coi filosofi che, davanti a Cristo, si siano interrogati sul mistero di Dio e della croce. La sua riflessione ha avuto un’importante influenza sull’enciclica di Giovanni Paolo II Fides et ratio, con la sottolineatura della circolarità feconda fra fede e ragione, filosofia e teologia nella comprensione della croce cristiana. Il secondo, sociologo, ha elaborato un’epistemologia delle scienze umane e una filosofia dell’ecologia. Il terzo, filosofo del diritto e psicanalista lacaniano, ha proposto un’antropologia filosofica “dogmatica”, non reticente nel confrontarsi con il fatto che le culture vivano di verità non dimostrabili, riproponendo il problema del limite contro i molti assolutismi in cui l’attuale mondo relativista inevitabilmente ricade. In terre germaniche, eredi della felice stagione dell’idealismo classico tedesco (e del romanticismo) – la sola epoca avvicinabile, filosoficamente, a quella archetipica, la greca –, si è nel dopoguerra delineata una serie di scuole e di studiosi che eccellono nella storiografia filosofica. Dieter Henrich (1927) e Manfred Frank (1945) hanno finemente scandagliato l’intrecciarsi di idealismo e romanticismo nel pensiero tedesco. Oppure, primo fra tutti, Werner Beierwaltes (1931), il maggiore riscopritore e acuto interprete della tradizione filosofica del neoplatonismo, da Plotino a Cusano. Karl-Otto Apel (1922) e Jürgen Habermas (1929), invece, per quanto con maggiori intenti propositivi, non eccedono il solco tracciato a suo tempo dalla Scuola di Francoforte, limitandone anzi le potenzialità (il mito, per esempio, non viene preso in considerazione, a favore della sola razionalità), nel tentativo di far confluire in categorie a priori universali il pluralismo fattuale. Si distinguono per posizioni maggiormente singolari Robert Spaemann (1927), cattolico e attento al problema della libertà e del male, Bernhard Waldenfels (1934), teorico del dialogo interculturale, e Peter Sloterdijk (1947), abile riformulatore di considerazioni sociologiche in pillole di saggezza filosofica e visioni generali. In area linguistica inglese, ancora prevalenti sono le tradizioni empirista e analitica, con Hilary Putnam (1926), autodefinitosi “realista interno”, John Rogers Searle (1932) – attento alle neuroscienze e ideatore di un’“ontologia sociale” – e il logico Saul Aaron Kripke (1940) negli Stati Uniti d’America, Michael Dummet (1925) in Inghilterra, analitico “metafisico”. Oppure la filosofia politica, con suo primo rappresentante l’inglese Alasdair MacIntyre (1929), comunitarista, nonché gli americani Michael Walzer (1935) e Charles Larmore (1950), rielaboratori del liberalismo. Da altre regioni del mondo giungono voci isolate, come quelle dello psicanalista sloveno Slavoj Zizek (1949), riformulatore di un comunismo utopico e di un cristianesimo senza Dio, o dell’ungherese postmarxista Ágnes Heller (1929). In Spagna spiccano fra tutti – da non confondersi con quello che è più un divulgatore che non un pensatore, Fernando Savater (1947) – Félix Duque (1943) e Arturo Leyte (1956), profondi conoscitori della filosofia tedesca, il primo originale interprete del mondo tecnologico contemporaneo, sino alle sue propaggini terroristiche. O, ancora, il filosofo mistico e metafisico “ateo” Oscar del Barco (1928), argentino di Córdoba, il maggiore in area latinoamericana, e il canadese Charles Taylor (1931), indagatore di un io individuale e comunitario assieme, capace di reggere alla prova del confronto interculturale. Infine l’antesignano della filosofia della mente, Thomas Nagel (1937), di origini iugoslave ma presto divenuto statunitense. Del resto molti dei filosofi menzionati tengono periodicamente lezioni in università americane. Un discorso a sé va fatto per l’area africana, indiana, estremo-orientale. Benché recentemente sia stata sviluppata una riflessione sul pensiero tradizionale africano, i suoi artefici utilizzano ampiamente gli strumenti concettuali e le lingue occidentali. Ad esempio Paulin Houndtondji (1942) non solo si è formato a Parigi, ma pubblica in lingua francese le sue opere. Attuale rappresentante dei filosofi giapponesi della Scuola di Kyoto, che fondono la tradizione buddhista zen con il pensiero heideggeriano studiato in Europa, è Toji Kamata (1951), i cui studi riguardano la filosofia delle religioni. Maggiormente originale è invece Osamu Nishitani (1950), filosofo della politica attento al problema della morte e della guerra. In Cina è ancora presto per parlare di libertà di pensiero e la criticità del pensare è vincolata, controllata, censurata, punita. Principalmente di storia della filosofia occidentale s’è occupato Yeh Hsiu Shan (1935). Alla storia e attualizzazione della tradizione di pensiero cinese hanno dedicato le proprie ricerche T’ang I Chieh (1927) e Yang Kuo Jung (1957). Il taiwanese Ch’eng Ch’ung Ying (1935) si riallaccia soprattutto al neo-confucianesimo, insegnando negli Usa, ove anche s’è recentemente trasferito il pensatore cinese vivente forse più originale, soprattutto in campo estetico, Li Tse Hou (1930), costretto all’esilio dopo la presa di posizione contro la violenza di Tienanmen, nel 1989. L’India dipende fortemente dal mondo culturale anglosassone o europeo, salvo gli autori che si riconoscano in specifiche scuole tradizionali, tuttavia spesso intese più come religioni o spiritualità semplicemente da conservare, anziché luoghi di confronto filosofico. Due dei principali filosofi indiani viventi, ad esempio, il decano Jitendra Nath Mohanty (1928) e Arvind Sharma (1940), si sono formati all’estero, il primo in Germania alla scuola fenomenologica e il secondo negli Usa, elaborando un’interpretazione analitica della filosofia non dualista. Invece il gesuita indiano Kuruvilla Pandikattu (1957) teorizza filosoficamente un dialogo fra scienza e religione come base di quello interreligioso.Il primo decennio del nuovo millennio registra dunque un deciso abbandono della riduzione della filosofia a mera analisi del linguaggio comune, diffusa nella seconda metà del secolo scorso in aree non solo anglofone. Sono oggi presenti diversi sociologi o storici delle idee che tentano invece di fare un’analisi delle pratiche sociali e individuali comuni, con attenzione ai possibili sviluppi futuri dei nuovi stili di vita delle masse. Ma questa tendenza rileva spesso scarsa elaborazione di pensiero originale, dimostrando invece come una certa civiltà della comunicazione diffusa sia autoreferenziale e incapace di aprirsi almeno ad ascoltare nuove esperienze o eventi veritativi. Maggiori prospettive sembrano dare quei filosofi che frequentano terreni di confine, come chi si confronti con le nuove scienze biologiche, dalle neuroscienze alla genetica, o chi abbia rinnovato il già tradizionale confronto con le esperienze religiose e le diverse culture. I più originali filosofi europei hanno da tempo infranto il veto di occuparsi di Dio, di fede e religione, con risultati fecondi in campo non solo teoretico ma anche morale e politico. Nel resto del mondo, orientale ed estremo-orientale in particolare, troviamo le prospettive più interessanti in quei pensatori – benché pochi – che comparano e anche intrecciano le diverse dimensioni della propria originaria tradizione culturale e spirituale, che sia induista o buddhista, taoista o confuciana, animista o cristiana, con prospettive filosofiche diverse, in particolare europee, vissute esperienzialmente nella propria stessa singolare persona.La sperimentazione personale di molteplici forme culturali o di pensiero, senza sincretismi, ma in un dialogo vivente rivolto a una crescita sempre ulteriore, è quindi forse la novità maggiore che, offerta dal mondo globalizzato – e rilocalizzato –, i filosofi del nuovo millennio stanno recependo, facendosi modello sperimentale di vita futura sul nostro pianeta capace di porre in armoniose relazioni persone diverse, culture disparate, dimensioni umane di differenti livelli. È comunque una triste constatazione che non solo l’oppressione della libertà di espressione del pensiero, ma la stessa vita pacificata – come s’è realizzata in particolare in Occidente –, con il suo benessere presto compiuto in opulenza e generalizzata standardizzazione, non sia terreno fertile per i filosofi. Forse, essi nascono piuttosto nel contrasto: se non bellico, almeno nella viva contraddizione. Esaurita la schiera dei pensatori forgiati dai conflitti bellici mondiali, irripetibili, come Martin Heidegger e Ernst Jünger, Paul Ricoeur e Emmanuel Lévinas, Simone Weil o Albert Camus, Benedetto Croce o Dietrich Bonhoeffer, Pavel Florenskij e Edith Stein, Hannah Arendt o Luigi Pareyson, sembra oggi vigere una pausa, poco riflessiva. Ma dai più recenti conflitti diffusi, terroristici e ideologici, fanatistici o tecnocratici, in modo sommesso sta forse sorgendo una nuova generazione di pensatori – fatta di singoli solitari, di filosofi venturi.
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