mercoledì 23 novembre 2022
Martin Caparrós in “Ñamerica” rivede molti stereotipi vigenti sui (e nei) Paesi ispanofoni: a 50 anni da Galeano «tutto è mutato, da zone di immigrazione sono divenute di emigrazione»
Martín Caparrós

Martín Caparrós - Epa

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«Dovremmo esserlo e non sta succedendo: siamo la sconfitta di noi stessi/ Spesso sembra che essere latinoamericano sia un dover essere che non finisce mai di essere: delude, non succede». Cinquant’anni dopo Le vene aperte dell’America Latina di Edoardo Galeano, il “memoriale dei torti” subiti dalla Conquista, che ha distillato “lo sciroppo amaro” del vittimismo a generazioni di latinoamericani, Martín Caparrós esplora in Ñamerica (traduzione di Sara Caravero, Einaudi, pagine 728, euro 25,00) l’attuale realtà del continente, ecclissata dagli stereotipi. Dopo averlo battuto durante decadi per raccontarlo, il maestro del reportage narrativo - argentino di nascita e spagnolo di adozione – con il dubbio come bussola e la ricerca olistica per metodo, traccia un’imponente cronaca dell’America ispanica. Al contempo saggio e cartografia storica, politica e socio-economica di un continente che, per essere conosciuto, deve anzitutto essere ri-nominato. «Da tempo riproduciamo luoghi comuni scaduti. Mi è sembrato valesse la pena verificarli per sapere con più precisione cosa è Ñamerica, se esiste, cosa la costituisce e chi siamo noi ñamericanos», spiega Caparrós ad Avvenire. Da una distanza focale ravvicinata, attenta «più all’ordinario, meno allo straordinario», ma con l’ambizione di ricostruire il complesso mosaico, l’autore di La fame (Einaudi) fissa alcuni tasselli.

Caparrós, perché ribattezzare il continente, a 500 anni dalla scoperta?

Perché è diventato un nome potente. Occupa un settimo delle terre emerse, è abitato da 640 milioni di persone, delle quali 420 milioni parlano castigliano. Ho tenuto fuori il Brasile, per centrarmi sui venti paesi che hanno in comune la stessa lingua, cosa che non avviene in nessun’altra parte del mondo. E poiché l’emblema dello spagnolo è la Ñ, che non c’è nelle altre lingue romanze, valeva la pena giocarci con un neologismo.

Iberoamerica, ispanoamerica, latinoamerica non sono sinonimi?

Proiettano spazi distinti. Latinoamerica è un’invenzione dei francesi quando, intorno al 1850, volevano estendere la loro influenza nella regione, ma comprende Brasile, Haiti, Suriname, una serie di Paesi non ispanofoni. Iberoamerica è quella sorta dai regni iberici, uno dei quali era il Portogallo, per cui include il Brasile. Ispanoamerica è, invece, la regione che identifico, ma suona a dominio imperiale, burocrazia e vecchio franchismo.

Perché la narrazione di Galeano oggi non vale?

Nel mezzo secolo trascorso dalla pubblicazione di Le vene aperte il cambio è stato radicale. La popolazione, che era in prevalenza rurale, oggi è per l’80% urbana. Ñamerica è la regione più urbanizzata al mondo. È fatta di megalopoli incapaci di tenere il passo con la propria crescita. Ne ho percorse 7 o 8, da Buenos Aires a Caracas, da Bogotá a Città del Messico, perché non si può capire se non a partire da questa esplosione brutale.

Disseziona stereotipi, anche la povertà è fra quelli?

La povertà è senza dubbio maggiore in Africa e in alcuni paesi dell’Asia. Ma Ñamerica è la regione più diseguale al mondo, dove da 5 secoli si è formata una élite, accumulando denaro e privilegi, che generano disparità estreme. Se dividiamo quella fallacia statistica che è il prodotto interno lordo per la popolazione, il reddito pro capite sembra più alto. Ma affinando le cifre, emerge una sperequazione enorme rispetto alla grande quantità di gente che è sotto il livello di povertà. Ho riflettuto sul perché e la riposta è: perché può. L’economia è da sempre basata su estrazione ed esportazione di materie prime. E per estrarle è necessaria sempre meno mano d’opera. I ricchi ñamericani non hanno bisogno dei loro poveri per lavorare né, d’altra parte, per consumare, poiché il mercato è fondamentalmente estero. Possono abbandonarli.

Il “continente inquieto” è anche dove più è cambiato il paesaggio umano?

Per millenni la caratteristica principale di Ñamerica è stata ricevere migranti, da quando, 20mila anni fa, lo stretto di Bering si congelò e alcuni siberiani poterono attraversarlo e popolare il nord. Nel XVI secolo arrivò la seconda ondata, dei “conquistadores” spagnoli, che commisero genocidi tremendi, e imposero la loro lingua, cultura e religione. Nel XVII e nel XVII secolo la terza ondata, la più vergognosa, derivò dal sequestro di milioni di africani impiegati come schiavi. La quarta, a cavallo del XIX e XX secolo, fu quella degli europei poveri del sud, molti spagnoli e italiani. Mentre negli ultimi quarant’anni l’America Latina ha cominciato a espellere migranti in una quinta ondata, che si oppone alle precedenti. Oggi è il territorio con la più alta percentuale di emigrati. Il che dice molto del nostro fallimento nel costruire società affidabili.

Fra i molti cliché che demolisce, c’è l’indigenismo che definisce «la versione sociale della vulgata ecologista», per il riferimento all’autenticità dei popoli originari. Perché la bolla come un’idea conservatrice e paternalista?

Mi sorprende che siano proprio i settori progressisti, impegnati a cambiare e migliorare le condizioni di vita, a pretendere, invece, che altri restino immobili nel tempo, isolati, senza progredire. È contraddittorio e si basa su un’idea della purezza di sangue molto pericolosa. Per di più crea una divisione fra poveri. Il fatto che il tuo bisnonno sia mapuche non ti dà più diritti del tuo vicino.

Una delle caratteristiche che rileva in Ñamerica è che gli afro discendenti sono relativamente pochi: persiste una sottile forma di razzismo?

Un razzismo per nulla sottile. In generale, i neri in America Latina non occupano posti di potere, non hanno quasi mai governato e pochissimi hanno cospicue ricchezze. Costa cambiare le strutture. Incluso nei paesi dove governa la presunta sinistra, i neri non sono ai vertici, e Cuba è l’esempio più evidente.

Un’altra norma non scritta, ma vigente, è il “machismo”: è cambiato qualcosa?

Discriminazione lavorativa a parte, credo sia stato uno dei cambi più rilevanti, naturalmente nelle fasce medie e alte e secondo i Paesi. Nel complesso, quello femminista è il movimento politico che più passi avanti ha compiuto negli ultimi 20 o 30 anni, perché ha una meta molto chiara e concreta, non ha bisogno di un progetto utopico complesso.

Quali caratteristiche possono far pensare a Ñamerica come a un unicum?

Un idioma, che significa una cultura e un modo di raccontare il mondo. Una religione, quella cattolica e cristiana, che ha esercitato un controllo enorme e ora è minacciata in uno dei suoi ultimi bastioni dalla religione evangelica. Credo, nonostante tutto, che noi ñamericani abbiamo una visione comune di speranza: l’idea che sia sempre possibile agire perché accada qualcosa di buono. Continua viva la percezione di un continente in costruzione, per tentare di farlo meglio.

Gli ultimi cambi politici, che ratificano una svolta a sinistra, rispondono allo stesso anelito?

La sinistra latinoamericana ingloba esperienze molto diverse, perché per fortuna Boric o Petro non hanno nulla a che vedere con Ortega o Diaz Canel. Negli ultimi due anni i cambiamenti sono stati interessanti. Io sostenevo che nei nostri Paesi la protesta, el “estallido” sociale della gente in piazza, disperdesse energie, che non si canalizzavano in politiche. Invece, questo si va modificando. I nuovi governi non vogliono adottare misure radicali di sinistra, solo riscattare i più vulnerabili e i servizi pubblici, perché sanità ed educazione siano alla portata di tutti. In Paesi dove sono private, può essere una rivoluzione.

Anche un laboratorio di nuove politiche?

Questa è un’idea molto europea, ed è una costante nella storia. L’Europa ha sempre considerato Ñamerica un luogo in cui proiettare le proprie utopie.

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