venerdì 21 luglio 2023
A pochi chilometri di distanza, la cattedrale di Dol-de-Bretagne e il menhir neolitico di Champ-Dolent sembrano intessere un muto dialogo. Che ci interroga
Il menhir neolitico di Champ-Dolent

Il menhir neolitico di Champ-Dolent - Raul Gabriel

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Corpo e mente, cromosomi omologhi nella cellula diploide del sacro. Non hanno gerarchia, la mente è corpo e il corpo determina in modo decisivo il pensiero. Animati da un unico verbo, sperimentare, da non confondere con accertare, utopia distorta utile delle ideologie. Se qualcosa si può dire del sacro è che coincide con l’azzardo, un solido azzardo potente e labile, che si perde nel dubbio per risorgere in certezze soggettive folgoranti e transitorie. Tutto è corpo, il sacro è sempre corpo anche quando si mimetizza nel pensiero che ne è la forma sottile, per utilizzare una immagine ormai datata ma comprensibile ai più. Tutto è irrimediabilmente sacro e non vi sono classifiche di elezione, inventate dagli uomini per controllare altri uomini. Il sacco di immondizia è sacro come un diadema di brillanti, le nostre viscere perfette e pure come le fiammelle eteree del Paradiso immaginato da Dante. Sacro è il primo sguardo del mattino e lo sbadiglio della sera, la noia e la gioia.

Tutto è rivelazione, tutto strumento. Tutto segno, tutto sviamento, non fa differenza, non siamo in grado di uscire dal nostro destino di carne, che nella carne si compie. Durante il percorso possiamo fare confusione e inventarci che l’oro sia più sacro di una pietra, o che l’onice sia più spirituale del cemento. Ci piace immaginare che la luce sia rivelazione più del buio ma questo ha a vedere con le categorie ristrette di chi pretende imporre al sacro le proprie personali preferenze. Il sacro non privilegia né materiali né persone, nè eventi, attende partecipazione e la offre ovunque, in ogni istante, da far pensare che la vita è perfino troppo lunga per le tante occasioni che offre di incontrarlo. Pure, non succede spesso, proni come siamo agli stilemi estetizzanti e le isteriche rivendicazioni del narciso che presidia senza sosta la porta dell’ossequio di Saramago.

Per tutto questo, in Bretagna, ho deciso che valeva la pena di andare a vedere, meglio, incontrare, il menhir neolitico di Champ-Dolent. In zona sono presenti vari insediamenti megalitici più corposi, come quelli di Mènec, Kerlescan e Kermario, ma Champ-Dolent mi attirava per la sua essenzialità, uno solo, senza distrazioni, architettura embrionale del tutto indifferente al circo delle vanità formali. Un centro, un fulcro a se stante. Ero curioso di stargli davanti e vedere cosa sarebbe successo, fosse successo qualcosa. Naturalmente non nel senso di qualche apparizione celtica o riti ancestrali di solstizi esoterici annunciati nel gaelico delle leggende, sono impermeabile alle suggestioni di sorta. I miracoli, come il sacro, sostanziano costantemente tutto l’esistente, noi compresi, anche qui che scrivo e voi che leggete. Arrivo in auto in un piccolo slargo ricavato nel terreno a frumento, parcheggio. Il sasso è lì a qualche metro. Esco dalla macchina, pochi passi e gli sono davanti, lui non dice niente, nessun elettromagnetismo se non quello indotto dalla meccanica di un trattore affaticato che sparge un concime particolarmente aromatico nei campi intorno.

La cattedrale di Dol-de-Bretagne

La cattedrale di Dol-de-Bretagne - WikiCommons

Non è bucolico. Se dovessi dire cosa è non lo so di preciso. È un sasso, solo un grande sasso di quasi dieci metri di altezza. La testimonianza delle sue origini è talmente lontana che si perde in tempi irraggiungibili anche alla mia immaginazione. Non dice niente, il sasso. Siamo uno di fronte all’altro. Il sasso non parla d’altro se non di chi lo guarda. Imponente, ma non è una novità. La cosa curiosa è che io sia qui. Verso il sacro si va per incontrare ciò che siamo. In qualche modo quel sasso sono io. Il sasso bretone potrebbe ricordare il monolite di Stanley Kubrik allo uno sguardo superficiale di una riflessione assente. Invece è altro. Quello di 2001: Odissea nello spazio è il parallelepipedo ideologico, un altro inesistente nei fatti, di certo inesistente alle vicende umane, inesistente alle scimmie esaltate dalla visione inedita cui assomigliano tanti manufatti che ideologizzano l’idea del “cubo”, assenze decorate prive di entusiasmo.

Il sasso di Champ-Dolent è talmente organico che sembra fatto di carne, non perché qualcuno ci viva dentro, non serve. Vive della relazione tra la presenza sua e mia che in qualche modo parlano una lingua comune, vive di ciò che innesca in me attraverso lo sguardo anche se non me ne rendo conto. Vive in me, vive di me. E anche del concime, del trattore, delle panchine da baita di montagna che ha intorno. Vale naturalmente il processo inverso. Non c’è una direzione, ma per certo c’è una relazione. Poco distante mi imbatto in una delle più belle cattedrali che abbia mai visto. Il termine è inadatto, cado anch’io nella melassa così cara al vocabolario delle ipocrisie dalla morale facile. Bella, in effetti, non significa nulla. Forse potrei dire vera, ma vero, per l’abuso che se ne fa, è diventato spesso sinonimo di finto, strano fenomeno linguistico. Una cattedrale come un sasso, funziona meglio. Articolata, naturalmente, ma ciò che dicono i suoi elementi è così unitario da farla percepire come la pietra unica di un’unica intuizione che comprende ciò che la circonda e vi è compresa.

La conservazione non si è azzardata a contaminare la sua forza con maquillage improbabili che si vedono un po' ovunque e testimoniano una mancanza di fiducia nei segni del tempo che con la pietra sono un solo corpo, deperibile, transitorio, eterno. La cattedrale di San Sansone a Dol-de-Bretagne, antica città episcopale, è una architettura che racchiude uno spazio, a differenza del sasso, eppure attraversarla è come penetrare una pietra unica in cui si riassumono tutte le intenzioni. A Saint-Malo da un ristoratore ho saputo che Ken Follett ha contribuito a qualche lavoro di recupero, non mi stupisce. La forza e la sacralità bretone si riassumono in questi due estremi uguali e diversi, scampati alle molestie della decorazione.

Si dice che è difficile valutare i risultati del fare il sacro. In parte è vero, l’argomento è controverso, a volte è un alibi in fuga dalla responsabilità di rinunciare alle semplificazioni per vivere il trasporto dell’incontro che prende forma nelle forme come un embrione che si plasma in essere compiuto, immersi e indifferenti come il sasso, catarsi del fare e dell’immaginare, identità, non bomboniere apocalittiche prese in prestito da una idea di purezza superficiale cui non viene in soccorso il più prezioso materiale si possa immaginare né le forme opportunamente aggiustate per accontentare il gusto.

Al sacro non interessa accontentare alcuno. Quando lascio Dol-de-Bretagne non mi è chiaro se ho visto un sasso, delle colonne, un presbiterio o una facciata dalla asimmetria potente, se sono stato neolitico o medioevo bretone o qualche racconto di Ken Follet. Non importa. Torno con l’idea di fare un sasso, tanti sassi che possano fare inciampare gusto e belletto e farci cadere direttamente dentro tutti coloro che li incontrano.

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