venerdì 6 marzo 2020
Un pamphlet di Castel, scienziato e filosofo francese, riporta l’attenzione sui tempi ultimi e sulla vita oltre la vita. Una visione priva di trascendenza, ma che interroga i credenti e non solo
Un’incisione dalla serie dei “Disastri della guerra” di Goya

Un’incisione dalla serie dei “Disastri della guerra” di Goya

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Sono molti gli intellettuali laici che negli ultimi decenni si sono cimentati con i temi delle cose ultime e, all’ingresso nel XXI secolo, si parlò di ritorno di un “pensiero della fine dei tempi”. Fra i primi, già nel 1995, Norberto Bobbio pronunciò a Torino un intervento sull’aldilà che fece molto discutere: «Qualche volta, pensando alla morte di una persona cara – disse il filosofo – mio padre ad esempio, so che quella persona che ho amato ora non c’è più. E che ci sia qualcosa di lui in un altro luogo, che non so dove sia, a me non importa assolutamente nulla». Parole amare, più che dure. Poco prima aveva provato a descrivere a suo modo, alludendo a un’iniziativa di questo giornale che aveva chiesto ai suoi lettori di inviare racconti sull’Apocalisse, l’ultimo giorno della vita sulla Terra: tutto sommato molto banale. Da parte sua un altro maitre-à-penser della cultura laica, Umberto Eco, sulla rivista “Liberal” in quegli anni scrisse: «Ciascuno gioca con il fantasma dell’Apocalisse e al tempo stesso lo esorcizza. Il pensiero della fine dei tempi è oggi più tipico del mondo laico che di quello cristiano».

Un esempio di questa tendenza è il recente volume dello scienziato e filosofo francese Pierre–Henri Castel Il male che viene. Saggio incalzante sulla fine dei tempi, un tentativo stimolante di affrontare l’idea di un orizzonte apocalittico secondo una prospettiva non religiosa. Se nel dopoguerra simili prove vennero affrontate da pensatori come Jaspers, Jonas e Anders, soprattutto in riferimento alla possibilità di un’estinzione dell’umanità a causa di una guerra nucleare, ora sono gli scenari del cambiamento climatico o di una catastrofe dovuta a epidemie (come la vicenda del coronavirus sta a dimostrare) a definire la retorica della fine del mondo. Se l’angoscia si era un poco attenuata dopo il crollo del muro di Berlino e la fine della contrapposizione fra Est e Ovest, ciò non significa affatto che la questione sia caduta nell’oblio. Una volta la minaccia si basava su contrapposizioni ideologiche e nasceva dalla volontà di supremazia sul globo, ora deriva dal nostro stesso sistema di vita.

Sostiene Castel: «Produrre i nostri alimenti in quantità industriale per quello che sembra essere il bene delle masse; alimentare di energia i luoghi in cui viviamo e lavoriamo; disfarci dei nostri rifiuti – in breve, vivere non solo normalmente ma, in molti casi, in stretta conformità con i nostri ideali di benessere individuale e collettivo e perfino con l’idea che ci facciamo della libertà e della giustizia, ecco cosa ci garantisce ormai lo sterminio». Il tutto «sullo sfondo di siccità e inondazioni, di carestie, di ingiustizie sociali dapprima circoscritte e poi generalizzate, di migrazioni, di epidemie, di crisi economiche». In poche parole, è il funzionamento stesso della civiltà, il modello del capitalismo che tutto riduce a merce e vuole riprodursi ovunque, a cospirare alla propria autodistruzione.

Ma l’analisi di Castel resta a livello filosofico e deliberatamente non fa cenno alle iniziative di mobilitazione come i Friday for Future: ciò che gli sta a cuore è delineare il volto del «Male che viene», di quella che Anders chiamava «un’apocalisse senza regno». Pur consapevole di muoversi su un terreno già abbondantemente arato dalle tradizioni religiose, egli non mette in campo nessuna osservazione desunta dal cristianesimo o dal buddhismo e preferisce illustrare ciò in cui consiste l’ateismo vero: «La consapevolezza che il reale non è stato “fatto” (da nessuna potenza divina) né perché lo si conosca, né perché lo si viva, né perché se ne goda». Nichilismo puro? Andiamoci piano, dato che le sue provocazioni vanno prese sul serio. Chiamiamo semmai la sua posizione catastrofismo illuminato. Che sia imminente o lontana, la fine del mondo avverrà. E con tutta probabilità accadrà che alcuni si rallegreranno a distruggere tutto, affrettando in qualche modo la fine. Gli ultimi uomini saranno ancor più cattivi e commetteranno i peggiori atti possibili. Sarà l’esplosione di una malvagità deliberata di cui gli orrori di Auschwitz e Hiroshima rappresentano solo i prodromi. «La dinamica del peggio – sottolinea ancora Castel – è l’unica a rendere conto del carattere intrinsecamente traboccante del Male».

Va qui segnalato come fra i segni dell’imminenza della fine che compaiono nei Vangeli e negli scritti dei Padri della Chiesa vi siano proprio l’aumento della malvagità umana, la tribolazione dei santi, la comparsa di tanti falsi profeti. Fino all’avvento dell’Anticristo e allo scontro finale. In un noto passo di Matteo si legge: «Un popolo si solleverà contro un altro popolo, un regno contro un altro regno; vi saranno pestilenze, carestie e terremoti in vari luoghi… il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo, e le potenze dei cieli saranno sconvolte». Tommaso d’Aquino parla di un regno universale del Maligno alla fine dei tempi, mentre Gregorio Magno nei suoi Dialoghi rileva come via via che il mondo attuale si avvicina alla fine, il mondo dell’eternità si lascia intravvedere più da vicino, ipotizzando quindi un aumento delle reciproche influenze fra terra e cielo. Gli elementi essenziali dell’escatologia cristiana contemplano dunque la parusìa preceduta dall’ultima prova della Chiesa davanti all’Anticristo, la fine dei tempi, la resurrezione e il giudizio universale. E il Nuovo Catechismo precisa che «il Regno non si compirà attraverso un trionfo storico della Chiesa secondo un progresso ascendente, ma attraverso una vittoria di Dio sullo scatenarsi ultimo del male».

Di tutto questo, nella sua prospettiva esclusivamente laica, non c’è traccia nel saggio di Castel. Così anche la speranza, chiaramente affermata nella visione cristiana, è appena accennata ove egli parla di un Bene che possa opporsi al Male imminente. Dinanzi all’ebbrezza della distruzione, al perverso godimento del Male che dominerà gli ultimi giorni dell’umanità, quale Bene immaginare? Esso dovrà «divenire non intimidibile di fronte al Male che viene». Il che significa rifiutare di diventare protagonisti di azioni di stampo criminale: vivere in poche parole un soprassalto di umanità, ritrovare quelle qualità morali, quelle virtù come la sincerità o la compassione che ci contraddistinguono come esseri umani. Senza però cedere alla mitezza ma mostrando forza e fierezza. Combattendo dunque per il bene: «Né candore né innocenza e neanche gli epiteti tradizionali di cui si intreccia la corona dei santi». Come si vede, un pensiero sulla fine dei tempi assai lontano da una Weltanschauung religiosa e in cui la dimensione della trascendenza è totalmente abbandonata. Così come l’idea che il bene che abbiamo fatto possa essere recuperato nell’aldilà. Si tratta di riflessioni più improntate a Freud e Nietzsche che ad esempio a un Camus, il quale senza essere cristiano non era disposto a rassegnarsi dinanzi all’ingiustizia e alla sofferenza, dinanzi alle “pesti” vecchie e nuove. In ogni caso, quelle di Castel costituiscono un pungolo per i credenti, che molto spesso hanno dimenticato di occuparsi delle cose ultime, e la dimostrazione che, se le ideologie sono cadute, non per questo i laici devono rinunciare ad avere valori forti, per i quali è possibile spendere la vita.

Pierre-Henry Castel
Il male che viene
Saggio incalzante sulla fine dei tempi
Queriniana, pagine 96, euro 11,00

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