mercoledì 24 marzo 2021
Nel suo nuovo saggio Massimo Borghesi va alle origini dell’opposizione conservatrice che parte del cattolicesimo statunitense attua contrapponendo strumentale Francesco e suoi predecessori
Un momento della visita di papa Francesco negli Stati Uniti, nel settembre del 2015

Un momento della visita di papa Francesco negli Stati Uniti, nel settembre del 2015 - Epa/Tony Gentile/Pool

COMMENTA E CONDIVIDI

Potremmo chiamarla la sindrome del fratello maggiore, quello che nella parabola del Padre misericordioso proprio non riesce ad accettare i criteri adottati per la gestione dell’economia domestica: rifugge dalla logica del dono, aggiorna la contabilità in maniera meticolosa e mortificante, scambia la tenerezza per debolezza. Afferma di amare e rispettare il Padre, questo figlio dalle mille certezze, solo non si capacita del fatto che il Padre non la pensi esattamente come lui. È questa l’immagine che conviene tenere sullo sfondo durante la lettura di Francesco. La Chiesa tra ideologia teocon e «ospedale da campo» ( Jaca Book, pagine 272, euro 20,00: il libro viene presentato domani alle ore 18.30 in diretta streaming sulla pagina Facebook della casa editrice), il convincente saggio con il quale Massimo Borghesi torna a considerare implicazioni e premesse dell’attuale pontificato. Se nel 2017 la sua «biografia intellettuale» di Jorge Mario Bergoglio forniva un quadro molto articolato e approfondito della formazione culturale e teologica del Papa venuto dall’Argentina, il nuovo volume prende in esame un caso specifico per sviluppare intorno a esso una riflessione più ampia, che investe l’intera ricezione del magistero di Francesco specie per quanto riguarda la dottrina sociale della Chiesa.

Professore di Filosofia morale all’Università di Perugia e autore di studi importanti sull’evoluzione del cattolicesimo post-conciliare, Borghesi prende qui come punto di osservazione gli Stati Uniti, il Paese nel quale in maniera più esplicita e sistematica ha preso forma un’opposizione conservatrice sempre pronta a contestare – e spesso anche a trattare con sufficienza – i pronunciamenti e le decisioni di Francesco. Il fenomeno si è fatto evidente negli ultimi tempi, in particolare durante la presidenza Trump, ma le origini di tanta insofferenza risalgono più indie- tro nel tempo e coincidono con il clamoroso fraintendimento in seguito al quale, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, il cattolicesimo statunitense ha assunto la forma di un «cattocapitalismo » individualista e tutt’altro che solidale. L’espressione, ricalcata sul controverso precedente del «cattocomunismo », fa riferimento al filone di pensiero che ha avuto il suo manifesto in Lo spirito del capitalismo democratico e il cristianesimo, il saggio del 1982 nel quale Michael Novak proponeva il modello di una radicale americanizzazione del messaggio evangelico. I valori di intraprendenza, competizione e massimizzazione del profitto venivano assunti a criterio morale, fino a sostituire il concetto di «bene comune » con quello di un generico effetto a cascata derivante dall’aumento dei consumi. In questo modo la filantropia prendeva il posto della carità, provocando il singolare cortocircuito tra una sostanziale protestantizzazione del cattolicesimo e la contemporanea rivendicazione dell’esclusiva sull’ortodossia cattolica.

La tendenza si è ulteriormente consolidato dopo la caduta del Muro di Berlino, portando alla ribalta le personalità di Richard Neuhaus e George Weigel, e ha avuto il suo momento di massima espansione nel 1991, quando una lettura fortemente lacunosa dell’enciclica Centesimus annus indusse a proclamare il trionfo del capitalismo quale unica dottrina economica genuinamente cristiana. Entra in gioco a questo punto il principale e il più insidioso degli equivoci che ancora oggi alimentano la mentalità teocon (la formula, com’è noto, indica una modalità di conservatorismo politico ammantata di argomentazioni teologiche): la contrapposizione tra Francesco e i suoi predecessori. In realtà il Giovanni Paolo II dei «cattocapitalisti » corrisponde solo in parte alla figura storica di papa Wojtyla. Borghesi lo dimostra testi alla mano, sottolineando come negli insegnamenti di “Karol il Grande” la condanna del comunismo vada sempre di pari passo con il monito nei confronti del liberismo e delle sue derive, secondo uno schema che si ritrova, tra l’altro, nella Caritas in veritate di Benedetto XVI, enciclica non per niente tutt’altro che apprezzata dai neoconservatori statunitensi.

Ma non andrà dimenticato che lo stesso Giovanni Paolo II era stato fatto oggetto di critiche solo superficialmente rispettose quando, nel 2003, si era pronunciato contro la guerra in Iraq. In quella circostanza si era assistito allo spettacolo, abbastanza inconsueto, di una lezione impartita al Papa in materia di “guerra giusta” da un gruppo di intellettuali che, pur professandosi cattolici, risultavano intrisi di un immaginario apocalittico largamente diffuso negli ambienti evangelicali (oltre che, si potrebbe aggiungere, nella propaganda islamista). In senso ancora più ampio, il libro di Borghesi aiuta a superare la facile dinamica della contraddizione per abbracciare la visione di una complessa polarità delle differenze che Francesco eredita da una lunga tradizione spirituale e pastorale, nella quale risuonano le voci di Ignazio di Loyola, di Erich Przywara, di Romano Guardini, di Paolo VI e di tanti altri. Ne deriva quell’atteggiamento di sollecitudine e di tenerezza che – argomentato nella successione che da Evangelii gaudium porta a Laudato si’ e a Fratelli tutti – trova la sua sintesi nella celebre espressione dell’«ospedale da campo». Oppure, se si preferisce, nella parabola del Padre misericordioso.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: