sabato 3 giugno 2023
"Il governo dei cieli” di Hippler racconta come dopo gli esordi coloniali in Libia la pratica del "police bombing" colpì sempre più le popolazioni civili. Fino al prevalere odierno dei droni
E con il primo bombardamento aereo nacque la guerra "sporca"

Persian Gulf began on Aug. 2, 1990

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Tripoli, 1 novembre 1911: il tenente pilota Giulio Gavotti lancia della bombe a mano dall’aereo sull’oasi di Ain Zara, colpendo militari e civili. Tripoli, 1 novembre 2011: appena il giorno prima si sono conclusi i bombardamenti della Nato iniziati in marzo. Una parabola di un secolo in cui si è dipanato quello che lo storico francese Thomas Hippler definisce Il governo del cielo (Bollati Boringhieri, pagine 192, euro 25,00).​

Quella che il docente all’Università della Normandia di Caen propone è una “Storia globale dei bombardamenti aerei” che parte da un assunto: «La storiografia della guerra aerea, che si concentra soprattutto sulla questione della legittimità e dell’utilità dei bombardamenti strategici della seconda guerra mondiale, considera a malapena i precedenti coloniali, spesso ritenuti una semplice “prova generale” prima della “guerra vera e propria” tra le grandi potenze». Insomma, ci si è concentrati più sulle Guernica, Coventry, Rotterdam, sventrate dai tedeschi e poi sulle città della Germania colpite dagli Alleati, Dresda su tutte (e infine sulle bombe atomiche contro il Giappone) e meno su quei fenomeni di lunga durata e poco noti che hanno coinvolto India, Pakistan, Afghanistan, Iraq, Siria.

Il gesto di Gavotti del 1911 – ritenuto il primo, rudimentale, bombardamento della storia –è stato, dunque, uno spartiacque, avendo creato un nuovo tipo di bersaglio «ibrido» (tra civili e militari, a loro volta regolari e non) e «un nuovo modo di pensare e fare la guerra, dando inizio a quelle guerre ibride e “asimmetriche” che continuano ad affliggerci ancora oggi». L’oggi del libro è il 2013 e dieci anni dopo Hippler scrive una postfazione in cui fa il punto e attualizza le tesi di allora. Mettendo al centro due dati. Da un lato la crescita della «guerra perpetua a bassa intensità» e il sempre più frequente utilizzo dei dispositivi telecomandati. Quella del 2020 per il Nagorno-Karabagh sarebbe il primo esempio di “guerra dei droni”, vinta dall’Azerbaigian sull’Armenia anche grazie ai droni turchi. Dall’altro l‘emergere di un nuovo quadro geopolitico che ha visto l’imporsi della Cina come contender degli Stati Uniti e allo stesso tempo riemergere i lunghi effetti del crollo dell’Unione sovietica. Si discute, infatti, su quanto l’attuale invasione dell’Ucraina sia figlia di questo fenomeno e sulle responsabilità: dell’Occidente per alcuni, dell’imperialismo russo per altri. L’autore si limita a ciò che questo conflitto dice sull’attuale modo di condurre la guerra aerea, che prescinde dal “dominio dell’aria” teorizzato nel primo Novecento dall’italiano Giulio Douhet. È ancora presto per dirlo, ma la guerra in Ucraina, con i combattimenti nei cieli sempre più affidati a migliaia di “sistemi autonomi senza equipaggio”, potrebbe rappresentare il superamento della distinzione tra “imperialismo” dei cieli alla Douhet e “guerra perpetua a bassa intensità” alla Obama. Tutto ciò, unito all’instabilità di intere regioni, dall’Iraq all’Afghanistan a Taiwan, potrebbe riverberarsi ancora una volta nella guerra tra Stati.

Questa era passata in secondo piano all’inizio del scolo coloniale. Soppiantata da operazioni dette di “police bombing” – sintetizzate nella massima «l’aviatore come poliziotto, la bomba come manganello» - che non tendono a occupare un territorio, bensì a tenere sotto controllo popolazioni potenzialmente riottose verso i dominatori. Non c’è un apparato statale da colpire e la repressione degli insorti si riverbera nello scenario internazionale senza passare per lo Stato-nazione. Nelle caratteristiche di modernità del “police bombing” coloniale, sostiene Hippler, sono già all’opera tutti gli elementi che per i teorici della “nuove guerre” sono da riferire alla globalizzazione.

Lo storico conduce una disamina che incrocia tutti i grandi temi del Novecento – nazionalizzazione delle società e della guerra, democrazie e totalitarismi, colonialismo e decolonizzazione, globalizzazione, declino dello stato sociale - con incursioni anche nell’idea di guerra tra Stati invalsa nei secoli precedenti. Per vederne le trasformazioni. Se prima, infatti, i conflitti partivano dal - e miravano al - centro delle entità coinvolte, ora segnano sempre più le periferie, geografiche e sociali. Questo spiega lo shock provato dallo scrittore H.G. Wells quando nel 1909 venne a sapere dell’impresa di Blériot che aveva appena attraversato la Manica. Gli venne chiesto un articolo per il “Daily Mail” nel quale riversò tutta la sua inquietudine per un fatto che secondo lui rappresentava un segno di vulnerabilità dell’Isola che fino ad allora era un centro egemonico del mondo: «Il fatto che questa cosa inventata dallo straniero, costruita dallo straniero e condotta dallo straniero abbia potuto attraversare la Manica con la facilità con cui un uccello sorvola un fiumiciattolo, pone un problema drammatico. Siamo ormai in ritardo (…) lo straniero produce una classe di uomini migliori di noi». La potenza egemonica, dunque, si globalizza e sfocia nella prima conflagrazione mondiale.

I bombardamenti prendono sempre più di mira le classi operaie, non solo per infliggere un danno economico al nemico, ma anche per sollecitare rivolte nelle popolazioni contro chi è al potere. I civili che finiranno nei rifugi durante la Seconda guerra mondiale saranno, comunque, in gran parte proletari. Sia durante il “moral bombing” alleato sulla Germania hitleriana, sia nell’attacco di questa all’Inghilterra. Il bombardamento rappresenta un esito sempre più spersonalizzato della guerra, come noterà George Orwell ne Il leone e l’unicorno: «Esseri umani altamente civilizzati mi stanno volando sopra la testa cercando di uccidermi. Non nutrono alcuna inimicizia verso di me come individuo, né io verso di loro (…) D’altro canto, se uno di loro riuscirà a farmi a pezzi con una bomba ben piazzata, non ne avrà il sonno rovinato». Una volatilità del sentimento del nemico che si vede plasticamente a Tempelhof, il vecchio aeroporto di Berlino, ormai dismesso. Lì è esposto il Rosinenbomber, il “bombardiere di uvette” usato dagli americani nel ponte aereo del 1948-49 per superare il blocco imposto dai sovietici, i “terroristi dell’aria” di poco prima sono spesso osannati poco dopo come salvatori.

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