venerdì 12 febbraio 2021
Un libro di Stefano Ferrari celebra il primo ginnasta capace di vincere tre titoli olimpici in due edizioni dei Giochi, Londra 1908 e Stoccolma 1912. Momenti di gloria e brusche cadute
Il plurimedagliato Alberto Braglia (1883-1954), oro olimpico della ginnastica a Londra 1908 e Stoccolma 1912

Il plurimedagliato Alberto Braglia (1883-1954), oro olimpico della ginnastica a Londra 1908 e Stoccolma 1912

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«Un incrocio di destini in una strana storia, di cui nei giorni nostri si è persa la memoria», canta Francesco De Gregori ne Il bandito e il campione incrociando le tappe esistenziali di Girardengo, il campione di ciclismo, e del suo amico d’infanzia Sante Pollastri, il bandito. Tra il campionissimo della ginnastica Alberto Braglia e l’asso della bicicletta di Novi Ligure, passano dieci anni di differenza: Alberto è classe 1883, Costante è della leva del ’93. E il cammino di Braglia è parallelo a quello del suo quasi coscritto, il maratoneta Dorando Pietri (1895), reggiano di Correggio, garzone di bottega e atleta olimpico della società La Patria di Carpi. Ma mentre della vita di Pietri e dell’epica maratona delle Olimpiadi di Londra 1908 ci sono pagine e pagine di letteratura, film e fiction tv, di Alberto Braglia fuori dalle mura di Modena sì è davvero persa la memoria.

A porre rimedio, e a far luce sulla vicenda umana e sportiva di questo piccolo grande eroe esemplare di Olimpia, c’ha pensato la penna storica e sensibile di Stefano Ferrari. La sua biografia Alberto Braglia. L’atleta del Re (Minerva, pagine 159, euro 15,00) si legge tutta d’un fiato, come una maratona di Dorando, ma la storia di Alberto poi prende una serie di giravolte e torsioni che mettono i brividi, a partire dal giovane Luigi. «Un ragazzo e un nome di fantasia, ma non troppo, magari è proprio quello della foto alle prese con la sbarra che dall’alto guarda il suo mito» dice Ferrari. Nello scatto degli anni ’50, si vede un giovane atleta e un Braglia ormai invecchiato, solitario e un po’ triste per le troppe perdite che la vita gli aveva riservato, in cambio di quei momenti di gloria conquistati nella ginnastica. Una favola dolce e poi profondamente amara, iniziata nella palestra della società Panaro dove incontrò il maestro Frascaroli, il quale rimase basito dinanzi all’incredibile «presa digitale» del ragazzo di campagna, a cui chiese: «Ma da chi hai imparato a far questo?». Si trovava di fronte a un fantastico autodidatta. Un talento naturale quel 17enne senza arte né parte che rispose candido: «Maestro è nel fienile che l’ho imparato. Sa, lì il mio cavallo con maniglie le maniglie non le ha, perché sono dei sacchi di grano impilati uno sull’altro sui quali io mi muovo». Questo il segreto di tanta agilità del giovane Braglia che cominciò tardi con la ginnastica, perché era nato povero: figlio (con cinque fratelli) di un muratore di Campogalliano, fuori dalle mura di Modena, dove si recava tutte le mattine e fino a sera lavorava a bottega. Eppure a 23 anni saliva già sul podio delle Olimpiadi “non riconosciute” di Atene 1906, riportando a casa due medaglie d’argento. La notizia fece il giro d’Italia e giunse alle orecchie del re Vittorio Emanuele III che in quei giorni promulgava la legge “Rava-Daneo-Credaro” per incentivare l’educazione fisica nelle scuole del Regno. Invitato a prendere un tè da sua Maestà, il giovin garzone modenese visse l’incontro e l’occasione della vita, e quando il Re gli chiese che cosa desiderasse in cambio degli onori che aveva arrecato alla patria, Alberto rispose con tutta l’umiltà dei grandi: «Un posto alla Manifattura Tabacchi di Modena».

Orgoglio proletario di chi conosceva i suoi limiti ma si allenava quotidianamente per superarli. Non a caso, l’allora sindaco di Modena Albinelli gli fece dono dello scudo cittadino, giallo e blu, con su la scritta «Avia Pervia», dal latino: «Rendere facili le cose difficili». I movimenti ginnici, anche quelli più ardui, per Braglia erano una pura formalità. Lavorava in fabbrica e poi scappava in palestra con un solo obiettivo in testa: vincere ai Giochi di Londra. Nel nuovo e monumentale White City Stadium, sotto il sole scintillante londinese (allora anche le gare di ginnastica si tenevano all’aperto) e al cospetto di oltre 100mila spettatori, Braglia nei cinque attrezzi che componevano la durissima prova finale si impose come il migliore dei 96 atleti in gara. «Alla sbarra chiudo primo, alle parallele vinco il turno, non ho rivali al cavallo con maniglie, gli anelli sono un’appendice di casa mia e sulla fune tocco il vertice per primo, cinque su cinque», racconta Alberto al giovane Luigi, ancora indeciso se proseguire o meno con i sacrifici dell’agonismo ginnico. Un trionfo epocale quello di Londra, oscurato in parte dal leggendario arrivo con svenimento di Dorando Pietri che, prima della squalifica (per doping, aveva assunto stricnina), ricevette la Coppa piena di sterline e di lacrime della regina Alexandra, che al traguardo aveva assistito commossa. Le stesse mani della Regina, misero al collo di Braglia la medaglia del metallo più prezioso. Ma mentre l’Inghilterra lo acclamava, per lui non ci furono onori al ritorno a casa. Eppure l’Italia poteva fregiarsi di soli due ori, il suo e quello di Porro, il lottatore di Lodi, più l’argento di Lunghi negli 800 piani, ma il medagliere era tutto lì.

Dalle Manifatture Tabacchi lo mandarono a chiamare, e siccome ormai era un atleta famoso e amato dal Re (e il popolo mormorava, «pure ricco») il suo posto forse era meglio darlo a chi ne aveva più bisogno. In realtà Braglia era un povero di successo e «quando nelle famiglie della povera gente inizia a piovere, poi finisce che grandina», sospirava tra le quattro mure domestiche. L’anno dopo l’apoteosi londinese, il 1909, Alberto lo ricorderà come l’inizio della fine: una malattia allora incurabile dopo mesi di agonia si portò via l’unico figlioletto aveva avuto dalla moglie (nome ignoto) tre anni prima. Il “male oscuro” lo legava mani e piedi al letto, l’atleta era alle corde, disoccupato e stretto dalle morse della fame, fino al giorno in cui alla sua porta andarono a bussare gli acrobati della Famiglia Panciroli per ingaggiarlo nei loro spettacoli teatrali. Dopo varie resistenze pur di tornare a mangiare Braglia accettò. Ma fu un doppio tonfo, quello del numero al trapezio che finì per fracassargli le ossa e poi la squalifica a vita chiesta dalla Federazione che non poteva tollerare una simile «pagliacciata» dal campione olimpico che prendeva soldi per delle umilianti esibizioni circensi.

Bollato di «professionismo» scattò lo stop a vita, revocato solo per intercessione del Re alla vigilia delle Olimpiadi di Stoccolma. Raggiunse la Svezia in treno: partenza da Verona e tre giorni di viaggio. Arrivò da portabandiera dell’Italia nella cerimonia olimpica dei «primi Giochi liberi e globali» in cui fecero la loro prima apparizione gli alfieri dei 27 paesi partecipanti, con 53 donne ammesse alle gare. Giudici e pubblico rimasero estasiati dal signore di tutte le specialità: l’italiano Braglia alla soglia dei trent’anni era ancora il ginnasta più forte del mondo. Un uomo da guinness. Vinse l’oro individuale e trascinò la squadra azzurra sul gradino più alto del podio, diventando l’unico atleta ad aver vinto tre titoli olimpici in due diverse edizioni dei Giochi. Questa volta il rientro fu da protagonista assoluto. Tutti lo vogliono e tutti lo cercano, ma anche l’esercito che gli inviò la cartolina: lo spedirono al fronte, sul Carso narrato dallo scrittore Scipio Slataper. Salvò la pelle, a differenza del milione e più di soldati italiani che morirono sul campo di battaglia. «La Grande Guerra e la Spagnola hanno spazzato via una generazione », raccontava con il cuore ancora straziato al giovane Luigi, al quale confidò anche i capitoli tragici del cammino seguente. Le cose per Braglia andarono a gonfie vele per tutti gli anni ’20: guadagnava bene, girava il mondo in turnée permanente diventando anche una star delle scene interpretando a teatro il ruolo di Fortunello in Fortunello e Cirillino, la striscia di Sergio Tofano che apparve sul “Corriere dei Piccoli”. Girò l’America e Hollywood stese il red carpet al ginnasta più vincente di sempre proponendogli il ruolo di Tarzan. Ma Braglia che aveva tutti i suoi interessi e gli affetti tra Modena e Bologna, declinò l’offerta e così la saga dell’uomo della jungla toccò a un altro campione oche limpico, l’austroungarico naturalizzato americano, recordman del nuoto Johnny Weismuller: 5 ori vinti tra Parigi 1924 e Amsterdam 1928.

La grande depressione del 1929 spazzò via gran parte delle fortune accumulate da Braglia. Le uniche magre entrate gli arrivarono dalla Federazione che lo aveva chiamato ad allenare la Nazionale di ginnastica che vinse l’oro, proprio sotto le colline di Hollywood, alle Olimpiadi Los Angeles 1932. Il fascismo lo nominò Cavaliere ufficiale per meriti sportivi, ma per sbarcare il lunario il campionissimo assurto anche a coach vincente dovette rimettersi a lavorare. Per la gente di Modena era ancora un eroe, ma allo scoppio della Seconda guerra mondiale si tramutò in fantasma. La sua famiglia si estinse e del mitico Braglia per anni si persero le tracce. Una domenica del 1947, fu il giornalista della Gazzetta dello Sport Mario Morselli a riconoscerlo tra i mendicanti che chiedevano l’elemosina sotto i portici del Collegio, vicino a quello stadio comunale che oggi porta il suo nome, l’Alberto Braglia. Sarebbe morto di freddo e di stenti se la Panaro non lo avesse riaccolto e assunto nella “Palestra Alberto Braglia”. Umile custode della sua stessa casa dei sogni a cinque cerchi. Il “signore degli anelli” Jury Chechi, ad Atlanta, nel ’96, quando vinse l’oro olimpico, gareggiava per la Panaro. La società di Braglia, che morì solo un giorno di febbraio (il 5) del 1954. Al funerale però parteciparono 20mila modenesi, la folla adeguata per un piccolo grande eroe dello sport dimenticato da tanti, ma non dalla sua città.

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