Il giornalista Alpha Kaba - .
«Improvvisamente ho l’impressione di non essere più niente, strappato da una foto di famiglia in cui non c’è più spazio per me. I trafficanti mi hanno appena tolto le ultime cose che, profondamente, mi legavano ancora ai miei». Dei naufragi di migranti nel Mediterraneo, di cui continua, purtroppo, ad arrivarci quotidianamente notizia, conosciamo i tragici numeri e, qualche volta, pochi dettagli su coordinate geografiche e dinamiche degli incidenti, sempre così simili nella loro drammatica banalità. Raramente abbiamo l’opportunità di scoprire nomi e storie dei disperati che si accalcano alle porte liquide di un’Europa che vedono come l’unica speranza, né conosciamo le vicende di quelli che, prima di finire nei lager libici e diventare carne da macello, erano persone con una vita, una famiglia, ricordi e progetti.
Per questo il racconto di Alpha Kaba appena uscito per Quarup Schiavi delle milizie (pagine 142, euro 14,90; con la traduzione di Sarah Ventimiglia e una nota introduttiva di Nello Scavo) è una lettura importante. Perché permette di comprendere la nauseante facilità con cui, ancora nel XXI secolo, un uomo può trasformarsi in un attimo in un oggetto di cui disporre con violenza e crudeltà, ma anche perché l’autore, finito nel girone infernale della Libia delle bande armate, nella sua vita precedente era un giornalista. E, nonostante tutto, lo resta anche nel mezzo dell’incubo: «Per non sprofondare, sarò quello che ricorda, che fa domande e indaga. La memoria sarà il mio baluardo contro la sottomissione».
Alpha Kaba, classe 1988, trascorre un’infanzia serena all’interno di una famiglia tradizionale guineana. Ma l’instabilità politica del Paese e l’inconsistenza della sua democrazia gettano un’ombra sulla vita dei cittadini, in particolare i giovani che, di fronte a malgoverno e corruzione, non accettano di tacere. Nel 2013, mentre Kaba lavora a un programma di denuncia alla radio libera Baté FM nella città di Kankan, l’emittente rimane vittima del giro di vite delle autorità e i suoi dipendenti sono costretti a fuggire per salvarsi la vita. In capo a poche ore, il cronista si trova ad attraversare in incognito la frontiera con il Mali per poi, in mancanza di alternative, raggiungere Agadez, in Niger, e lì unirsi a una delle carovane di persone che, confluite dall’Africa occidentale nella città di sabbia in mezzo al Sahara, sfidano le dune aride con il miraggio della costa mediterranea.
Un convoglio di migranti nel Sahara, al confine della Libia - Ansa
«Verrò a sapere poi che il Sahara è la prima trappola, il cimitero in cui cadono la maggior parte di rifugiati», scrive Alpha Kaba, riportando le stime dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni secondo cui, tra il 2014 e il 2018, a fronte dei 16 mila nigranti morti nel Mediterraneo sono circa 30 mila quelli scomparsi nel tentativo di attraversare il deserto.
L’autore ce la fa. Arriva ad Algeri ma il suo contatto lì si rivela un bluff e resta senza soldi né prospettive. Finché qualcuno, nelle baracche in cui ha trovato rifugio insieme ad altri ragazzi subsahariani, gli parla della Libia.«Sotto Gheddafi il Paese era ricco. Al momento, nessuno di noi è a conoscenza del caos che regna dalla fine della guerra civile: siamo convinti che la situazione sia rimasta uguale».
Ma quella terra, ostaggio di un’infinità di bande contrap- poste, si trasformerà in una trappola per Alpha e i suoi compagni. Appena attraversata la frontiera con l’aiuto di passeur senza scrupoli, il pick up in cui sono nascosti viene intercettato da uomini armati. Che ne razziano il prezioso carico umano. Spogliati, perquisiti, privati degli zaini e di qualunque oggetto che li legava alla loro vita precedente: abiti, fotografie – il tutto dato alle fiamme sotto i loro occhi –, i migranti da qual momento si trasformano in schiavi. Uomini e donne sono comprati, rivenduti, noleggiati, spostati di città in città secondo le esigenze del nuovo padrone, o del nuovo cliente: un capo milizia che deve finire un cantiere edile, o un ricco possidente che ha bisogno di braccia per le sue piantagioni di datteri.
Ma alla rievocazione dei ricordi, che nonostante l’orrore riesce a mantenere sempre un velo di pudore e umanità, l’autore aggiunge la cruda descrizione di un vero e proprio sistema che, nutrito dal razzismo verso i “negri”, prospera sul loro sfruttamento. «Questo traffico procura enormi profitti: con la guerra in Libia, i lavoratori stranieri che operavano nel settore edile e agricolo se ne sono andati via. Noi serviamo a rimpiazzare quegli uomini». Un’organizzazione che si nutre del caos: «Lo Stato non ha più potere e la terra è lasciata alle milizie. Che siano tribali, religiose o semplici raggruppamenti di mercenari, regnano sovrane. Abbandonato in questa terra di nessuno, nessun Negro è al sicuro».
Eppure, l’alibi dell’anarchia non può servire al mondo civile per lavarsi la coscienza. Lo spiega bene Nello Scavo, che nell’introduzione ricorda lo storico verdetto del tribunale di Messina con la condanna di tre nordafricani accusati di essere torturatori nel campo di prigionia di Zawyah: «Una sentenza che conferma come l’in- tera filiera istituzionale della cattura, del respingimento e dell’internamento dei migranti in una struttura ufficiale, e ad opera di una “guardia costiera” equipaggiata e foraggiata da Italia e Ue, altro non sia che un infernale ingranaggio lubrificato a suon di euro».
È questo lo scandalo raccontato da Alpha Kaba, riuscito, dopo due anni di schiavitù, a salire su un gommone per l’Italia – poi naufragato – e salvato da una nave della ong Sos Méditerranée. Oggi, che dopo una lunga odissea anche sul suolo europeo vive a Bordeaux e ha ricominciato a fare il suo lavoro, seppur da esule strappato alla sua terra e agli affetti, il giornalista riflette: «So di essere fortunato. Se fossi fuggito qualche anno dopo, sarei morto in mare: la nave che mi ha soccorso è stata infatti obbligata a chiudere i battenti a fine 2018». Un altro peso sulla coscienza europea.