martedì 17 gennaio 2023
L’ultimo romanzo di Daniele Mencarelli affronta il tema dell’angoscia di un genitore soffocato dalla cruda realtà di un figlio autistico
Daniele Mencarelli in occasione della presentazione della serie tv “Tutto chiede salvezza” tratta dal suo libro omonimo

Daniele Mencarelli in occasione della presentazione della serie tv “Tutto chiede salvezza” tratta dal suo libro omonimo - Marco Provvisionato/Ipa

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La situazione iniziale ricorda La panne, la novella di Friedrich Dürrenmatt apparso nel 1956 e portato sul grande schermo nel 1972 con il titolo La più bella serata della mia vita, Ettore Scola alla regia e Alberto Sordi nel ruolo del protagonista. Un guasto all’automobile, la sosta obbligata in una località sconosciuta, il senso di una vita che viene dolorosamente rimesso in discussione. Questa volta, però, al posto della costosa Studebaker descritta da Dürrenmatt c’è la malconcia Golf guidata da Pietro, barba troppo poco curata e vestiti troppo sportivi per i suoi cinquant’anni. Comincia così Fame d’aria (Mondadori, pagine 180, euro 19,00), primo romanzo di Daniele Mencarelli dopo la trilogia autobiografica composta da La casa degli sguardi (2018), Tutto chiede salvezza (2020: dal libro, vincitore del premio Strega Giovani, è stata tratta una fortunata serie Netflix) e Sempre tornare (2021). Da tempo affermato come poeta, di recente Mencarelli ha debuttato come drammaturgo con Agnello di Dio, una pièce che già annunciava il tema centrale del nuovo romanzo. Se nella trilogia d’esordio l’autore presentava sé stesso nella condizione di figlio, in Fame d’aria il punto di vista cambia, diventando quello di un padre che non riesce a sopportare il peso di una responsabilità che di giorno in giorno diventa sempre più crudele. Pietro non viaggia da solo. Nel sedile a fianco c’è il figlio diciottenne Jacopo, affetto da una forma particolarmente grave di autismo. Il ragazzo è «a basso funzionamento, bassissimo», spiega il padre quando gli si chiede della sindrome. E poi, per essere sicuro di essersi fatto capire, ripete una frase ormai collaudata: « Non parla, da solo non fa nulla, si piscia e caca addosso». Trovare pannoloni della misura giusta non è la minore delle difficoltà che Pietro si trova ad affrontare dopo che la sua derelitta utilitaria è stata trasportata nell’officina di Oliviero a Sant’Anna del Sannio, paesino del Molise in inesorabile fase di spopolamento. Gli esercizi commerciali sono ridotti al minimo, giusto un negozio di alimentari, una farmacia e il bar-ristorante che per fortuna ha ancora una stanza disposta a ospitare Pietro e Jacopo. Pochissimi e quasi tutti anziani gli abitanti, con l’eccezione di Gaia, che è tornata a casa per dare assistenza alla madre. Anche Pietro, a sentire lui, è sulla via del ritorno. Da Anagni, dove vive, sta scendendo a Marina di Ginosa, dove lo attende la moglie Bianca, originaria della Puglia. I due si sono conosciuti lì, sulla spiaggia, più di vent’anni prima e lì vogliono trascorrere qualche giorno di fine estate, nel tentativo di allievare almeno un po’ la fatica di accudire quell’unico figlio incapace di tutto e di tutto bisognoso: il padre, nella sua amorosa esasperazione, ha preso l’abitudine di pensare a lui con un nomignolo recuperato dall’archeologia delle tv commerciali. Nel complesso, la ricostruzione dei fatti un po’ insospettisce Agata, proprietaria dell’alberghetto nel quale Gaia lavora qualche ora al giorno. Insieme con Oliviero, che sta facendo l’impossibile per recuperare i pezzi di ricambio nonostante la serrata del fine settimana, le due donne formano una sorta di famiglia vicaria, alla quale Pietro si affida con riluttanza. Continua a prendersi cura di Jacopo, d’accordo, ma ha certi scatti di impazienza, certi attacchi di rabbia che solo la durezza della sua esistenza rende in qualche misura comprensibili. «Oggi a un genitore dicono tutto, anche quello che non vorrebbe sentirsi dire. Ti dicono che tuo figlio ha un potenziale, che con le terapie giuste, nei posti giusti, quel potenziale si può tirare fuori. E se uno non ha le possibilità? Se sei un morto di fame? Magari se Jacopo fosse nato da un padre più ricco, più bravo a fare soldi, avrebbe frequentato centri migliori, i migliori terapisti. Chissà, forse starebbe un po’ meglio. Alla fine si impazzisce. Si diventa cattivi», confessa Pietro a Gaia. Che nel portafoglio gli restino solo un paio di banconote, del resto, è un’informazione di cui il lettore viene messo a parte presto, molto prima che si arrivi al disvelamento del terzo atto. La struttura di Fame d’aria segue quella di una messa in scena, accorciando così ulteriormente le distanze tra il romanzo e il già ricordato Agnello di Dio. Alla base della scelta sta la convinzione, più volte espressa da Mencarelli, che il teatro sia la prima forma di espressione letteraria, dalla quale discendono tanto la poesia quanto il romanzo. Nel caso specifico, la lingua del racconto si adegua alla premessa, assottigliandosi in un’evocativa asciuttezza che richiama l’andamento di un copione o di una sceneggiatura. Le descrizioni d’ambiente, brevissime e incalzanti, lasciano spazio all’interiorità di Pietro, al suo arrovellarsi in domande che ormai non aspettano più risposta. Lassù, a Sant’Agata del Sannio, è chiusa perfino la chiesa, non c’è neppure la consolazione di battagliare con Dio per chiedergli ragione di tanta sofferenza. A meno che la risposta – l’unica possibile – non aspetti da qualche parte, in un futuro imminente: sotto una tempesta di lacrime e pioggia, in un abbraccio che purifica e perdona. Daniele Mencarelli presenterà il suo Fame d’aria alle 18.30 di domani al Teatro Oscar di Milano, in via Lattanzio 58/A.

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