giovedì 28 maggio 2020
Eike Schmidt: «Nella loro sede originale ritroverebbero il giusto contesto architettonico-spaziale oltre che il valore spirituale». E suggerisce di partire dalla Madonna Rucellai di Duccio
La Madonna Rucellai di Duccio, agli Uffizi di Firenze

La Madonna Rucellai di Duccio, agli Uffizi di Firenze - WikiCommons

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«Credo che il momento sia giunto: i musei statali compiano un atto di coraggio e restituiscano dipinti alle chiese per i quali furono originariamente creati». È la proposta lanciata dal direttore delle Gallerie degli Uffizi Eike Schmidt, a margine della riapertura di Palazzo Pitti a Firenze. Non è la prima volta che Schmidt avanza l'ipotesi: in termini simili ne aveva fatto cenno in un'intervista ad “Avvenire” il 10 dicembre scorso, in qualità di presidente del Fondo edifici di culto. Ieri mattina, con una azione a tenaglia, l'invito è invece quello, interno al sistema, del direttore di uno dei principali musei italiani. «In tanti musei statali si trovano tavole, tele, pale ed altri dipinti ideati e realizzati per chiese o cappelle. E visto che l'Italia si distingue da altri Paesi per la diffusione del patrimonio dei beni culturali su tutto il territorio, una ricongiunzione storica – ove possibile – riporterà valore ad opere d'arte e luoghi». I dipinti «nella loro sede originale ritroverebbero il giusto contesto architettonico–spaziale e il rapporto con le altre opere d'arte, con una “valorizzazione virtuosa” dal punto di vista storico e artistico. E per giunta, le opere ricontestualizzate riacquisirebbero il loro significato spirituale originario, quello che in prima battuta aveva determinato la loro creazione».


Schmidt si riferisce in particolare a opere «che dalle chiese spesso sono finite nei depositi dei musei, o che nei musei sono state trasportate solo temporaneamente per poi rimanervi senza alcun passaggio di proprietà ufficiale. È ovvio che per un ritorno devono essere prima di tutto garantite le condizioni di sicurezza – antifurto, antivandalismo e climatiche, ambientali». Ma soprattutto ha in mente un'opera in particolare, una delle più ammirate degli Uffizi e per questo la proposta ha qualcosa di clamoroso: «la Pala Rucellai di Duccio di Buoninsegna, che nel 1948 fu portata via dalla basilica di Santa Maria Novella e dagli anni ‘50 del Novecento è esposta nella sala di Michelucci e Scarpa, insieme alle ﷯Maestà﷯ di Giotto e di Cimabue. Non è mai entrata a far parte delle proprietà del museo. Certamente agli Uffizi questo monumentale dipinto offre la possibilità di un paragone stilistico con le due pale di Cimabue e Giotto, ma la sua assenza da Santa Maria Novella sottrae una parte essenziale alla sua storia e al suo senso complessivo. “Il ritorno a casa” della pala di Duccio sarebbe non solo un atto dovuto di giustizia storica, ma anche un bellissimo modo per celebrare, nel 2021, gli 800 anni dell'insediamento dell'ordine domenicano in Santa Maria Novella, all'insegna di un dialogo sempre più fertile, culturale e spirituale, tra Stato e Chiesa».

I “viaggi di ritorno” dal museo alla chiesa sono sporadici ma non del tutto inesistenti. Uno dei più importanti – anche perché ha sviluppato un dibattito su sicurezza e fruizione – è quello del Seppellimento di santa Lucia di Caravaggio, che dopo un trentina di anni al Museo Bellomo di Siracusa nel 2006 è tornato (con il contributo decisivo di Vittorio Sgarbi) nella chiesa di Santa Lucia al Sepolcro. La proposta di Schmidt ha sollevato diverse reazioni, sintetizzabili nei due poli opposti di Vittorio Sgarbi («Ha mille volte ragione. Andrò da Franceschini per sostenerlo») e di Tomaso Montanari («Non ha nessun senso dire una cosa del genere. Non siamo al supermercato. Inoltre il direttore degli Uffizi è contemporaneamente il presidente del Fec ed è stato nominato da Salvini nei giorni del Papete. C'è un conflitto di interessi»).

Secondo Timothy Verdon «è una proposta rivoluzionaria che inverte il percorso museale dell'arte sacra degli ultimi secoli. Già nel Seicento si era cominciato a “musealizzare” le grandi pale d'altare facendole entrare nelle collezioni principesche. Riportare una pala in una chiesa e in particolar modo sopra l'altare, anche se non più utilizzato, significa evidenziare la funzione liturgica dell'immagine: ad esempio nella Pala Rucellai ritornerebbe leggibile il legame tra il corpo eucaristico e il corpo del Bambino Gesù. Certo, si può anche ricostruire un altare in un museo ma non è la stessa cosa». Sono temi che Verdon affronta da tempo e che ora divengono finalmente materia di dibattito pubblico: «È una provocazione salutare, l'occasione per riflettere su un modo diverso di presentare l'arte, introdurre le persone al senso più profondo. Se anche alla fine una sola opera venisse ricollocata sarebbe comunque un successo».


«Restituire un'opera al luogo per la quale è nata, e in particolare in una chiesa ancora officiata sarebbe la più alta operazione di valorizzazione», commenta Valerio Pennasso, direttore dell'Ufficio Nazionale per i beni culturali ecclesiastici e l'edilizia di culto della Cei: «Ridare a quell'oggetto la dignità e la finalità per cui è stato realizzato. Una pala d'altare su un altare, riconsegnta alla devozione, sottratta a una lettura esclusivamente artistica, storica o materiale». Sotto il profilo tecnico, nel caso di uno spostamento da museo statale a chiesa del Fondo edifici di Culto sarebbe una dinamica tutta interna allo Stato. Nel caso invece di chiese di proprietà diocesana «restano in ogni caso centrali le questioni della sicurezza, sulle quali vige la competenza delle sovrintendenze».


La sicurezza è uno dei temi centrali, che rendono arduo l'iter. Ma conservazione e valutazione caso per caso in questi casi sono regole d'oro, come spiega Domenica Primerano, direttrice del Museo diocesano di Trento e presidente di Amei. I musei ecclesiastici sono composti per lo più da opere provenienti da chiese: «Il ricovero di un'opera nei musei è subordinato al pericolo. Sarebbe sbagliato, come invece a volte purtroppo accade, aprire un museo ecclesiastico prendendo nelle chiese opere per costruire un completo percorso museale. Allo stesso modo certe opere non possono rimanere in chiese chiuse, insicure sotto il profilo ambientale o non protette. Però è logico che i musei restituiscano l'opera quando può essere ricollocata in modo sicuro e con la garanzia dell'accessibilità».


In controluce c'è il problema della musealizzazione delle chiese. «Le chiese non sono musei – commenta Pennasso – ma luoghi di culto. Riconsegnare le opere non significa ricostituire il valore patrimoniale di un museo diffuso: sarebbe semplicemente un atto di giustizia e un'occasione per valorizzare l'opera nel luogo. Decontestualizzando un'opera la si osserva nei particolari ma non la si comprende nel significato complessivo». Allo stesso tempo non è detto che la semplice ricollocazione riattivi un significato religioso ormai discioltosi per motivi culturali e sociali: c'è una storia interrotta sotto molti punti di vista. Anche la questione sicurezza potrebbe influire al punto da “sigillare” l'opera in una sfera autonoma. «Restituire i significati originari potrebbe essere uno sforzo non indifferente – osserva Primerano – Ma il tema si inserisce in un percorso che coinvolge da tempo l'ambito museale italiano, dove si sta ragionando su un approccio alle opere in museo fatto di narrazioni oltre che di elementi storico–artistici. C'è uno spostamento di approccio all'arte sacra, con un racconto che restituisca all'opera tutte le sue dimensioni. Oggi quindi siamo più pronti a muoverci in altro modo. La proposta entra in questa nuova logica, magari forzando la mano ci vuole dire esattamente questo: regalare a queste opere, ovunque siano, uno sguardo diverso e più completo».

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