venerdì 3 giugno 2011
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C’è chi, essendoci nato, vive e scrive tutti i giorni di un «Messico napo­letano» (in realtà ricordiamo a tutti che non lo fa soltanto Roberto Saviano) e c’è chi invece come Malcolm Beith dagli Stati Uniti decide di trascorrere tre anni della sua vita nella 'gomorra' della Sierra di Sinaloa per indagare sull’inferno dei narcotrafficanti messicani. Beith, armato solo di curiosità e taccuino, con le scarpe consumate dell’in­viato di guerra (è stato anche in Iraq), è an­dato a toccare con mano quel Messico oscu­ro e malavitoso, stando però molto attento e non scottarsi con il fuoco delle braccia ar­mate del terrificante Joaquin Archivaldo Guzmàn Loera, alias El Chapo. Il famelico 'tarchiato' (traduzione di Chapo), uno dei maggiori criminali in circolazione che «For­bes » colloca anche al 41° posto tra gli uomini più potenti del mondo, per via del suo conto corrente miliardario. Ricchezze accumulate con l’oro bianco, la 'coca', che da Sinaloa fa scorrere a fiumi questo re del malaffare, eva­so nel 2001 dal penitenziario di Puenta Grande dove avrebbe dovuto scontare una pena di 20 anni di reclusione. E invece è las­sù nel canyon inaccessibile, libero e incon­trastato nel suo regno. Una taglia da 5 milio­ni di dollari pende sulla testa di quest’uomo che tutti vedono e conoscono, ma che nes­suno ha il coraggio di sfidare.Migliaia di per­sone sono già cadute nella guerra scatenata da El Chapo e 45 giornalisti come Beith, che si erano avvicinati troppo alle fiamme del suo inferno, sono rimasti bruciati per sem­pre. In uno scenario di terrore e corruzione che coinvolge servizi segreti e squadre inve­stigative internazionali, l’unica denuncia co­raggiosa è stata quella dell’arcivescovo di Durango, Hector Martinez Gonzalez, che non vuole arrendersi alla scandalosa libertà d’azione concessa all’inafferabile El Chapo. Uno Zorro maligno, smascherato finora solo dal libro-inchiesta di Beith L’ultimo narco (Il Saggiatore). Il giornalista americano, con la sua guida, Carlos, ha cercato di arrivare il più vicino possibile a questa fonte inesauribile di criminalità.Al termine del suo viaggio nella notte di Si­naloa che idea si è fatto de El Chapo?«Dopo essermi documentato a lungo su di lui e sul suo giro di affari posso dire che si tratta di un uomo molto scaltro, un calcola­tore. È un uomo di strada, sa esattamente come manipolare le persone e come cor­rompere le autorità. Potrebbe essere la rein­carnazione del diavolo, così come tanti lo definiscono. E non lo dico certo per glorifi­carlo, ma perché penso che la sua sia vera­mente un’esistenza diabolica, in un contesto come quello messicano».Un contesto in cui, leggendo il suo libro, sembra si muova praticamente indisturba­to.«El Chapo, lì nella Sierra, con lo spaccio della droga ha costruito un impero multimiliona­rio, quindi il suo potere è prettamente eco­nomico. Questo nonostante il governo mes­sicano abbia compiuto un grandissimo sfor­zo nel contrastarlo. Un dato di fatto non cer­to trascurabile».A quanto ammonta l’indotto del narcotraf­fico in quelle terre di malaffare?«Messico e Colombia con il narcotraffico guadagnano dai 19 ai 40 miliardi dollari. De­naro sporco che viene poi reinvestito in altre attività criminali, con la possibilità di entrare in contatto e fare affari con altre organizza­zioni internazionali. A mio parere, uno dei pericoli principali di cui spesso non si parla è la globalizzazione della criminalità orga­nizzata».Una minaccia che a quanto pare non si rie­sce a bloccare.«Controllare il traffico è una cosa, bloccarlo è impresa molto difficile. Riuscire a far crollare un boss come El Chapo è l’obiettivo prima­rio e devono riu­scirci prima che il suo potere de­bordi. La piaga del narcotraffico comunque si al­larga grazie an­che all’appoggio che i governi forniscono ai 'signori della droga'. Gli Stati Uniti di fatto non li appoggiano, ma permettono però alle gang di operare. La guerra del narcotraffico negli Usa riguarda soprattutto la 'gestione del problema' e non l’arresto dei grandi ca­pi. Uno come El Chapo, un artista della cor­ruzione, negli Stati Uniti non potrebbe esi­stere. In Europa, in Asia o in Australia di si­curo non tolle­rerebbero un uomo simile».El Chapo e la sua banda può ricordare certi boss della cri­minanilità or­ganizzata ita­liana?«Il codice del silenzio, l’o­mertà diffusa, avvicina la sua organizzazione a quelle della criminalità italiana. Ci sono però solo degli aspetti speculari che possono assimilare le due realtà. Il Messico esporta droga in Europa dove gruppi locali si occu­pano del commercio, ma non troverete mai uno spacciatore messicano per le strade di Napoli».All’ultimo Festival del giornalismo di Peru­gia qualcuno l’ha presentato come il 'Savia­no del Messico'. Si ritrova nell’accostamen­to?«Io sono una persona curiosa e mi piace sco­prire sempre il perché delle cose. Quando e­ro in Messico ho visto come viveva la gente e sono andato in profondità. Ma non posso considerarmi un oppositore della crimina­lità mondiale. Saviano è un oppositore nella sua realtà, perché è lì che è nato e cresciuto. Ho letto Gomorra e trovo che sia un bellissi­mo lavoro sulla letteratura della mafia. Sa­viano al di là di quello che si scrive e si pensa ha rischiato e rischia la vita, denunciando fatti e persone apertamente. È un uomo co­raggioso e spero che continui così, con co­raggio e curiosità, a raccontare gli aspetti torbidi della società in cui vive e opera».Anche lei vive sotto scorta?«Non mi sento minacciato e la mia vita per fortuna non è cambiata da quando ho pub­blicato questo libro su El Chapo. Ma cono­sco tanti giornalisti messicani che per inse­guire la verità vivono sotto costante minac­cia di morte. Sono professionisti che ammi­ro e che vedono il giornalismo come me: co­me impegno civile e come mezzo importan­te per informare il popolo».La sua missione in Messico si è conclusa o pensa che ci sarà una seconda puntata?«Se continuerò, sarà soltanto per mettere pressione al governo in questa lotta. Il popo­lo messicano è terribilmente spaventato e confuso. In questi ultimi quattro anni 35mila persone sono state uccise nella guerra della droga. Purtroppo non credo che il lavoro del giornalista sia così d’impatto e soprattutto incida come vorremmo. I governi lavorano e vanno per la loro strada, il nostro compito però è di non smettere di indagare e di divul­gare. Io voglio che il mondo sappia che cosa sta accadendo laggiù... Confesso però che oltre a queste storie di violenza umana, mi piacerebbe anche dedicarmi ad altri sogget­ti. Magari scrivere libri che i miei figli, quan­do un giorno ne avrò, possano leggere e tro­varci dentro un mondo migliore e meno vio­lento di questo in cui viviamo».
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