mercoledì 22 febbraio 2023
L’incontro tra le fedi si nutra anche di conoscenza delle rispettive abitudini alimentari. È il tema di una serie di incontri alla Cattolica di Cremona
La raccolta della manna in un’illustrazione delle “Cronache di Norimberga” stampata da Anton Koberger

La raccolta della manna in un’illustrazione delle “Cronache di Norimberga” stampata da Anton Koberger - WikiCommons/University of Edinburgh

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Nelle tazze del caffellatte tutte le mattine molti, senza saperlo, mettono un alimento, i corn flakes, ideato da un avventista per motivi salutari. Più note sono le rigorose norme alimentari di islam ed ebraismo, anche se percepite come distanti. Mentre si dà per scontato, ma non è del tutto esatto, che i buddisti siano ipso facto vegetariani. Al di là delle moderne versioni in salsa yankee dei cereali, il millenario rapporto tra religione e cibo, con tutte le sue valenze culturali e anche gli interrogativi che pone alla società moderna, sarà al centro di un ciclo di conferenze che si apre domani nella sede di Cremona dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Il campus, che al suo interno ha una facoltà di Agraria, si trova in un territorio dalla forte vocazione agroalimentare, che comprende province come Piacenza e Lodi, dove significative sono le presenze di altre religioni, dagli islamici ai sikh. « La diversità delle modalità di alimentazione può essere sia un modo per conoscere l’altro, sia un problema. Soprattutto in una società come la nostra che si è trasformata in multireligiosa », spiega l’organizzatore, Antonio Giuseppe Maria Chizzoniti, ordinario di Diritto canonico e Diritto ecclesiastico. direttore della collana Religioni, diritto, cultura e società (Rubbettino) e autore di molti saggi su diritto, cibo e libertà religiosa.

La conoscenza delle regole alimentari può aiutare il dialogo?

Sicuramente può aiutare a comprendere la diversità. Il cibo accomuna le persone. Ma è anche una sfida per l’accoglienza. Pensare che gli altri debbano adattarsi ai nostri usi è un approccio non aperto, che non include.

La convivialità è un mezzo efficace?

L’azione dell’alimentarsi è esclusiva per eccellenza: io mangio per me. Oggi mangiamo soli, di fretta, cosa che non aiuta a riflettere. Ma, se ci fermiamo, scopriamo che quel momento può trasformarsi in inclusivo, in condivisione. Sedersi insieme a tavola, in particolare per il cattolicesimo, è determinante. Si pensi all’Ultima Cena. L’aggiunta delle regole religiose, a seconda di come le si approccia, può però trasformarlo in un momento di esclusione. In questo la concezione cattolica ha un’apertura assoluta. Mangiate di tutto, mangiate con tutti e ringraziate Dio, sono i punti fermi.

Su cosa si basano tali regole?

Per ebrei e islamici sui rispettivi testi sacri. Gli antropologi hanno cercato anche motivazioni legate all’insediamento sul territorio. Io mi fermerei a constatare il rapporto con una divinità che si preoccupa di dare indicazioni su un elemento essenziale alla vita.

E le religioni orientali?

Induismo e buddismo vanno distinti. Entrambi, però, hanno una concezione del rapporto con natura e animali che tende a superare l’antropocentrismo. Il pensiero buddista è un po’ più elaborato rispetto alle regole. Ma, attenzione, c’è un’idea generica che lo identifica con un vegetarianesimo estremo. Non è proprio così. Il consumo di carne non ha un’accezione positiva, certo, ma non possiamo rinvenire un divieto assoluto come nella kasherut con l’elenco di ciò che si può mangiare, di come deve essere cucinato e di come devono essere mantenute le stoviglie. Poi le esperienze di buddismo sono tante. Basti pensare che in Italia ci sono due intese, con l’Unione buddista e la Soka Gakkai. Due visioni non sovrapponibili. E in esse non troviamo rivendicazioni specifiche di diversità alimentare. Non sono nemmeno presenti in tutte le bozze presentate dai vari soggetti islamici. Ci sono solo nell’intesa con le comunità israelitiche.

E nel cristianesimo?

Più che con le denominazioni della riforma, c’è qualche differenza tra cattolicesimo e ortodossia. Non sul cosa, quanto piuttosto sul quando e sul non mangiare, cioè sui digiuni, che per gli ortodossi sono numerosi e molto sentiti. È un tema poco noto, ma di grande interesse, vista la sempre maggiore presenza tra noi di fedeli legati a quelle Chiese. Nel mondo protestante va, comunque, fatta una distinzione tra denominazioni tradizionali e nuovi movimenti, che hanno tratti peculiari. Come gli Avventisti del settimo giorno. Questi si definiscono una health religion. Perciò guardano alla dimensione alimentare con grandissima attenzione, arrivando a “inventare” cibi ad alta definizione salutare e quindi religiosa. Uno è inaspettato.

Quale?

I fiocchi d’avena che usiamo al mattino a colazione sono stati “creati” - tanto che è un marchio registrato - dal dottor Kellog, un avventista, che li ha introdotti nelle sue cliniche insieme ad altre indicazioni di salute.

Veniamo al rapporto tra regole e la convivenza comune. Sorgono problemi organizzativi, ma spesso anche ideologico-politici. Pensiamo ai casi sui cibi halal nelle mense scolastiche, l’ultimo a Lodi. Come venire incontro a queste esigenze?

L’uguaglianza di trattamento, prevista nella nostra Costituzione come nelle più importanti, non passa solo per la garanzia negativa, cioè l’esclusione di leggi che discriminino. C’è il principio per cui lo Stato deve rimuovere gli ostacoli economici e sociali, che impediscono il pieno sviluppo della persona. E siccome questo non può esserci senza libertà religiosa, ecco che allo Stato è richiesto di intervenire, in positivo, anche con la spesa. Il problema è che ci sono i limiti di cassa e vanno fatte scelte. La Corte europea dei diritti dell’uomo in una sentenza che riguardava un detenuto buddista - che non chiedeva una dieta no pork, genericamente vegetariana, ma una specifica per sé - ha stabilito che il costo ulteriore rispetto al normale non era tale da non poter essere sostenuto dall’amministrazione penitenziaria polacca. Una linea che nelle applicazioni concrete appare problematica.

Cosa fare allora?

La soluzione ideale sarebbe di garantire a tutti di seguire le proprie regole alimentari. Il diritto a farlo è attestato. Che poi venga completamente declinato in momenti di difficoltà - carceri, ospedali - nelle scuole e nei posti di lavoro, è problematico. Passi in avanti ce ne sono stati e c’è una maggiore sensibilità, che però si attua con una tutela a “macchia di leopardo”. A scuola, ad esempio, viene garantito un menù no pork, secondo il termine usato in Europa per dire genericamente che garantisce un minimo rispetto, ma non specifico. È evidente che non corrisponde al rispetto completo delle regole halal. D’altronde nelle norme pattizie, come con il mondo ebraico, la direzione è di garantire tale rispetto ma a spese della comunità e del singolo.

Ma chi garantisce che il cibo rispetti i precetti?

Qui scoperchiamo un altro tema di grande interesse, ma poco frequentato. Quello delle certificazioni alimentari. Prima era il soggetto che si autoproduceva il cibo. Nella dimensione industriale c’è un problema che riguarda la produzione e poi la logistica. Queste certificazioni non seguono uno schema cattolico-centrico, come si potrebbe pensare. Per gli ebrei vengono rilasciate dalle scuole rabbiniche. Per l’islam dagli Stati, tra i quali uno di grande importanza in questo campo è la Malesia. Da noi il Coreis (Comunità religiosa islamica italiana, ndr) ha provato a fare una certificazione Halal-Italia ma ha poca presa, perché i suoi aderenti sono pochissimi.

A Cremona quattro menù

Al via domani nel campus di Cremona della Cattolica il ciclo “Le religioni a tavola”. Si parte con "Cibi kasher, treif e pareve", relatore il rabbino David Elia Sciunnach. Venerdì 3 marzo toccherà a "Cibi Halal e Haram", con l’imprenditore ‘Abd Al-Sabur Turrini e l’islamologo padre Paolo Nicelli. Giovedì 9 l’orientalista Paolo Magnone parlerà di induismo e buddismo (“ Chi cucina per sé mangia peccato”). Giovedì 16 chiude il giurista Antonio Giuseppe Maria Chizzoniti: "Io sono il pane. Il cristianesimo a tavola".

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