lunedì 13 ottobre 2014
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​I restauri della Cappella Sistina (1979-1999) permisero di guardare le immagini molto da vicino e produssero una vastissima e dettagliata documentazione fotografica. Ciò è servito a molti storici per tentare nuovi approcci ermeneutici all’opera del Buonarroti. Eppure a tutti è sfuggito un particolare che a prima vista può sembrare di scarsa importanza me che si è rivelato fondamentale per entrare nella "teologia" michelangiolesca. Lo ha scoperto lo storico dell’arte e collaboratore di queste pagine Marco Bussagli, che pubblica la sua ricerca sotto un titolo esplicito: I denti di Michelangelo (Medusa, pp. 176, euro 19). I denti, proprio così.A tutti è ben noto il volto della Sibilla Delfica, che è un po’ il simbolo degli affreschi. Ebbene, la bocca minuta e semiaperta lascia affiorare tre ampli incisivi al posto di due. Possibile che al maestro dell’anatomia artistica sia sfuggito questo particolare? Perché la chiostra dentaria normale ha due incisivi nell’arcata superiore, divisi dalla linea di simmetria dell’intero corpo. La presenza di un incisivo mediano, il quinto in totale, rientra nell’anomalia anatomica nota come hyperdontia, ovvero presenza di denti soprannumerari. Il quinto incisivo è chiamato mesiodens.Allora la Sibilla è stata dipinta con questo difetto? Cosa curiosa, data la sua bellezza ideale, ma possibile. Senonché troviamo il mesiodens in altri volti: il monumentale Giona, diverse figure de «Gli Israeliti e il serpente di bronzo», qualcuno degli Ignudi, le figure di dannati e demoni del Giudizio Universale, l’aguzzino che alza la croce nella Crocifissione di san Pietro nella Cappella Paolina, la Furia degli Uffizi, il Laocoonte della Stanza segreta nella Sagrestia Nuova di San Lorenzo, il disegno della cosiddetta «Ugly Cleopatra» di Casa Buonarroti, e altri ancora.La compresenza di queste figure con altre dalla dentatura normale fa pensare a una volontà esplicita dell’artista. Con quale significato, allora? Si entra qui nell’appassionante mondo dell’iconologia michelangiolesca, le cui bussole sono gli scritti dell’artista e le possibili fonti letterarie. L’accurata analisi di Joseph Pfeiffer sulla scorta di Bernard Mc Ginn degli affreschi della Sistina conferma definitivamente l’influenza della visione della storia di Gioacchino da Fiore con la distinzione delle tre ere della redenzione: l’era del Padre fino all’Incarnazione, del Figlio che è quella presente, e quella futura dello Spirito Santo. Non è difficile notare che le figure col mesiodens nella volta della Sistina corrispondono a personaggi ante gratiam, vale a dire vissuti prima di Cristo e perciò non redenti ancora. Altro gruppo con il quinto incisivo è composto dai dannati, dai demoni, dagli oppositori della fede, quelli che potremmo chiamare sine gratia.Allora questo segno anatomico serve a dividere buoni e cattivi? No. Serve a distinguere chi è in grazia di Dio e chi no. Lo sfondo teologico è l’aspra discussione sulla predestinazione che si svolse lungo l’intero secolo, tra opere come il De servo arbitrio di Lutero, il De libero arbitrio di Erasmo e i decreti del Concilio di Trento. L’argomento è complesso e cruciale, e Michelangelo ne era partecipe attraverso le frequentazioni romane. Basterebbe il nome del cardinale inglese Reginald Pole.Allo storico-detective Bussagli è venuta a questo punto una curiosità o piuttosto una domanda necessaria: come sono i denti nelle immagini michelangiolesche di Cristo? L’unica che ha la bocca semiaperta è quella scultorea della Pietà Vaticana. Per la disposizione stessa della figura, forse, nessuno mai si è interessato di questo particolare. Ora una piccola indagine nell’ambito di questa ricerca ha documentato un dato terribile: Gesù ha il mesiodens. Una semplice foto della bocca potrebbe demolire l’intera teoria. Solo che non è una teoria senza fondamento; Michelangelo ha raffigurato il quinto incisivo nelle persone al di fuori della grazia e solo in quelle. Non è casuale. E allora non è casuale neanche il dente in più in Cristo.
L’amore dell’artista per Gesù, a tratti tenero, è fuori discussione, basta leggere i suoi scritti. Non era, quindi, una blasfema attribuzione del peccato al Redentore. Non blasfema, ma sì attribuzione. È il topos teologico del Cristo agnello sacrificale che si è caricato i peccati degli uomini: «Jahweh fece cadere su di lui l’iniquità di tutti noi […]. Come un agnello fu condotto al macello», dice il profeta Isaia (13,6-7) in versi da sempre attribuiti a Cristo, e ancora: «È stato trafitto a causa delle nostre trasgressioni, è stato fiaccato a causa delle nostre iniquità» (13,5); «Il castigo esemplare che ci rende la pace è su di lui» (ibid). Scrivendo ai Corinzi san Paolo afferma: «Colui che non conobbe il peccato Dio per noi lo fece peccato, affinché noi diventassimo in lui giustizia di Dio» (2Cor 5,1). Non occorre andare oltre. Il mesiodens di Cristo è il nostro, quello di tutti i peccatori. Sant’Ambrogio lo diceva con un bel giro di parole: «Egli non è salito sulla sua ma sulla nostra croce».Ora, la Pietà Vaticana è un’opera giovanile, quindi Michelangelo coltivava già queste idee negli anni fiorentini. È ciò è plausibile se consideriamo la diffusione popolare di alcune opere di sant’Antonino di Firenze come il Libretto della Dottrina Cristiana o il Confessionale. Per non dire della predicazione del Savonarola, di cui il giovane Michelangelo era attento ascoltatore. Inoltre i demoni del Cappellone degli Spagnoli in Santa Maria Novella avevano il mesiodens.
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