venerdì 13 giugno 2025
L'illusione di Fukuyama ha fatto comodo per lungo tempo a chi coltivava il sogno di una globalizzazione mercatista. Ecco dove abbiamo sbagliato e perché oggi l'Europa è profondamente divisa
Una donna disperata per la distruzione del suo palazzo a Odessa, lo scorso 10 giugno

Una donna disperata per la distruzione del suo palazzo a Odessa, lo scorso 10 giugno - Ansa

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Anticipiamo qui ampi stralci del capitolo introduttivo scritto da Eugenio Mazzarella, professore emerito di Filosofia teoretica all’Università Federico II di Napoli, per il suo ultimo libro Contro l’Occidente. Trascendenza e politica (pagine 182, euro 20,00) in uscita per Castelvecchi. Il libro è un diario di guerra “domestico”, scritto all’indomani dei conflitti che, dal 2022, hanno scosso profondamente anche le nostre coscienze: Ucraina e Palestina non sono più guerre lontane, ma eventi che ci riguardano direttamente, che bussano alle porte dell’Europa e interrogano l’Occidente sul suo ruolo nel mondo globale. Mazzarella affronta questi scenari con la lucidità del filosofo e l’urgenza del cittadino, proponendo una riflessione pubblica che intende rompere l’indifferenza e contrastare l’inerzia morale e politica. Un invito a ripensare nel profondo le basi culturali e geopolitiche dell’Occidente.

Quando nel gennaio del 2022 arrivava in libreria un mio piccolo libro Europa, Cristianesimo, Geopolitica. Il ruolo geopolitico dello “spazio” cristiano, in cui qualche lettore che lo aveva avuto tra le mani prima che venisse pubblicato aveva voluto vedere un appello alla coscienza europea perché si svegliasse dal suo torpore e si facesse carico di sé e della sua storia, per contare oggi ancora qualcosa nella storia, e non solo nella storia dello spirito, non immaginavo che, di lì a poco, il bisogno di questo appello – con l’invasione russa nel febbraio dello stesso anno dell’Ucraina – sarebbe stato messo alla prova quotidiana degli eventi bellici, di un’inattesa frattura nel cuore dell’Europa cristiana. Nel cuore di quell’Europa che lo “spazio cristiano” – anche per le vie traverse di un evangelo coloniale nei secoli dell’espansione e della predominanza europea – aveva portato nel mondo ben oltre i suoi confini. Inattesa non perché non ci fossero le condizioni per cui questo trauma, dopo la caduta del Muro di Berlino, poteva darsi, a cominciare dalla questione del Donbass, ma perché si poteva evitare. Come ogni analisi onesta genetica e di contesto della crisi che in Ucraina stiamo vivendo come europei, dovrebbe pur ammettere. E come dovrebbe ammettere che questa in Ucraina è la terza guerra civile europea nel secolo lungo cominciato a Sarajevo, con la Prima Guerra Mondiale. Una Guerra civile questa volta indotta dall’esterno, da ragioni non europee, come nelle prime due. Ragioni riconducibili al contesto di una globalizzazione che come ogni grande processo storico, come sempre la storia che si muove spesso e volentieri di suo per eterogenesi dei fini ed epigenesi inattese degli eventi, ha deviato dalla “storiografia” che gli era stata prevista, cioè dalle attese di chi la globalizzazione l’ha posta in essere tirandovi dentro il mondo: l’Occidente atlantico e la forza delle sue “divisioni”, tecnica ed economia, talora con indosso le uniformi di gala dei “valori” e della “scienza”.

Inopinatamente le ragioni di scambio del mercato globale non rispondevano alle regole di ingaggio della globalizzazione mercatoria agita, e cioè messa in atto, promossa e diretta, dagli stakeholders occidentali. Regole che fondamentalmente erano una: che il Consiglio di amministrazione del mercato globale restasse saldamente in mani occidentali. Nient’altro che la costante pretesa del tradimento oligarchico del liberismo. Nel concreto il regime del dollaro e le oligarchie che lo governano da difendere ad ogni costo contro le emergenti rivendicazioni dei Brics. Nulla di nuovo sotto il sole. Questa crisi di previsione del corso della globalizzazione avrebbe richiesto e richiederebbe un aggiornamento di politica “aziendale” in una geopolitica – quella della “fine della storia” – che si era avventurata a pensare di poter tenere il mondo in “amministrazione controllata”, ritenendo che la partita delle ambizioni “imperiali” di potenza si fosse chiusa una volta per tutte con il disfacimento del blocco sovietico; che il planetario della storia avesse fissato una volta per tutte, almeno fino a nuovo ordine, orbite e massa dei pianeti intorno al “sole”. E visto come si sono messe le cose – il nuovo ordine è arrivato prima delle attese, a dire il vero prestissimo – sarebbe stata, e sarebbe, cosa saggia, anche ai fini di mantenere una posizione dominante nel mercato-mondo in modi non distruttivi, anche per sé stessi, della possibilità stessa del mercato-mondo. Avrebbe richiesto, e richiederebbe, cioè, di accettare con realismo, per governare in modo sostenibile ai suoi attori questa globalizzazione e la sua deriva, un multilateralismo competitivo certamente per la logica delle cose, ma fondamentalmente cooperativo, e non strategicamente conflittuale, ovverosia orientato al conflitto. Non conflittuale almeno nel ricorso al vasto e variegato armamentario della guerra ibrida. In termini tradizionali, un multilateralismo che non prevedesse la guerra come continuazione della politica con altri mezzi. “Mezzi” da Hiroshima in poi, e alle strette di confronti “esistenziali”, in ultima istanza impraticabili con buona pace di von Clausewitz.

Anziché questa strada, le leadership occidentali hanno scelto, in modo ora corrivo, ora inerziale, di non cambiare la via vecchia per la nuova, sull’onda dell’illusione, alimentata dalla caduta del Muro di Berlino, che la via vecchia, la predominanza del modello occidentale avesse vinto, e che di altre e nuove vie non vi fosse bisogno. E che quindi «finita la storia» (Fukuyama) – in realtà solo quella della contrapposizione lineare Est-Ovest, dove l’Est era nient’altro che l’Est europeo, e non certamente l’Oriente in toto (vicino, medio, lontano) non ancora portato dalla globalizzazione nella grande storia governata fino al disfacimento sovietico dagli accordi di Yalta – poteva finalmente affermarsi a tassi di conflittualità globale accettabili l’unilateralismo della governance occidentale del mondo, ristretta per altro alla pax americana. Alle prime avvisaglie, uno scarso decennio, che la storia voleva continuare a non finire, questa visione unilineare della contrapposizione Est-Ovest mediata a Yalta – già fuori tempo massimo con i primi passi dello sviluppo cinese annunciato dalle Tigri asiatiche guardate con condiscendenza interessata come cintura di contenimento della Cina – si è riproposta con singolare strabismo geopolitico nella contrapposizione Oriente-Occidente, sull’asse sino-americano con il suo baricentro nel Pacifico. Contrapposizione letta con gli strumenti dell’atlantismo della vecchia contrapposizione Est-Ovest, tutta interna all’Europa, slargata all’Oriente del mondo globale, con tutta un’altra cartina geopolitica. Un atlantismo traslato sul Pacifico che ha portato all’insensatezza di inserire la Russia, una pertinenza storica e spirituale dell’Europa cristiana, nella cartina geografica dell’Oriente asiatico. Mentre proprio la nuova contrapposizione binaria di interessi, di potenza, di ambizioni imperiali tra l’Occidente americano affacciato sul Pacifico e la Cina avrebbe richiesto che la Russia fosse tenuta agganciata all’Europa e alle stesse ambizioni imperiali americane: copyright, che è stato anche il suo ultimo contributo geopolitico, di Henri Kissinger, uno che il confronto Est-Ovest in Europa aveva contribuito a vincerlo “agganciando” la Cina per distanziarla dall’URSS, dall’Est europeo della Guerra fredda con l’Occidente atlantico. Laddove era evidente che una Russia affrancata di fatto dal modello socialista – con il suo capitalismo oligarchico basato a Londra e nelle maggiori piazze d’affari mondiali – con il crollo sovietico non aveva, e non avrebbe, nessuna ragione di collocarsi ad Oriente, tanto più in un mondo dove “il modo di produzione asiatico” non esiste più neppure in Asia.

A questa crisi europea, in Ucraina, la cui funzionalità agli interessi occidentali, europei e russi nel quadro più generale del mappamondo competitivo e conflittuale della globalizzazione resta tutta da dimostrare, al netto delle ragioni, o dei torti, di tutti che l’hanno generata, in buona parte esito dell’approccio per così dire ancien régime dell’Occidente alla nuova realtà geopolitica della globalizzazione dopo la caduta del muro di Berlino e del sistema sovietico, approccio che ha mandato all’aria l’Östpolitik della Cancelliera Merkel nata sulla riunificazione della Germania, come logico esito del rapporto – fondato sul reciproco interesse europeo – a tenersi con la Russia, che per altro riprendeva le intuizioni preveggenti di Willy Brandt e del Vaticano di Casaroli, a questa crisi europea si è aggiunta l’incapacità occidentale, e segnatamente americana, di mettere bocca nel drammatico acutizzarsi, con la barbarie terroristica di Hamas del 7 ottobre e la risposta dello Stato di Israele, dell’irrisolta, da fin dalle origini dello Stato di Israele, questione palestinese.

Anche qui, un’analisi onesta della storia della questione palestinese non poteva, e non potrebbe, consegnare la risposta genocidaria dello Stato di Israele, riversata sul popolo palestinese ben al di là di Hamas e poi sul Libano ben al di là di Hezbollah, alla legittimità del suo diritto all’autodifesa dopo l’attacco terroristico subito il 7 ottobre. Non vederne, sottacere o persino giustificare l’uso abnorme di questo diritto all’autodifesa in modalità atroci lesive di ogni istanza di diritto internazionale, di guerra, e umanitario. Di cui gli attacchi israeliani all’Unifil in Libano e la delegittimazione o la ricusazione delle corti di giustizia internazionali e dell’Onu ne sono la più plateale conferma. Il risultato dell’incapacità, dell’inerzia, della malafede parolaia delle cancelliere europee e del governo americano davanti all’abnorme catastrofe umanitaria, politica e morale, dalle prospettive incerte ed angoscianti, che si sta da un anno e più consumando in Palestina per una scelta strategica di Israele di Netanyahu, con grande seguito purtroppo nella società israeliana, è che questa catastrofe umanitaria e politica di una guerra senza sbocchi se non l’indefinito esercizio di una deterrenza di annientamento dei propri nemici, fin quando sarà esercitabile, è anche sempre più una catastrofe dei presunti valori occidentali, su cui sono stati costruiti gli organismi internazionali, a cominciare dall’Onu; e a discendere della credibilità dell’Occidente a potersi fare da garante e moderatore della stabilità e della sicurezza del nuovo mondo della globalizzazione, a potergli indicare l’orizzonte di un “nuovo ordine”. Il diritto a dettare questo nuovo ordine quanto meno in Medio Oriente se lo è arrogato Netanyahu, dichiarando ad abundantiam di star facendolo per la difesa dell’Occidente, anche di quella sua parte imbelle. L’Israele di Netanyahu, in grado di costringere persino gli Usa ad accettare qualsiasi cosa faccia per la sua “sicurezza”, è il peggior testimonial che poteva esserci e che c’è alla credibilità del ruolo che l’Occidente, e la sua guida imperiale, gli Usa, ambiscono a ricoprire nel “nuovo ordine”, nei nuovi equilibri a doversi creare nei processi di globalizzazione in atto.

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