venerdì 23 dicembre 2022
Una mostra-trittico indaga la figura dell’intellettuale italiano nei legami con l’arte, la scena pubblica, l’etica e l’iconografia sacra. Un tentativo di martirologio laico
Una sala della mostra su Pasolini "Tutto è santo. Il corpo veggente"

Una sala della mostra su Pasolini "Tutto è santo. Il corpo veggente" - .

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Nella “litania” Tutto è santo si consuma il dramma e l’ossessione che hanno segnato la vita di Pier Paolo Pasolini. Dico litania, perché in effetti sembra di sentirlo, Pasolini, mentre la recita in ogni sua azione, sia essa critica sociale, poesia, immagine, cinema (dove ogni fotogramma altro non è che l’intervallo ritmico che rende l’invocazione più lenta o più incalzante), ciò che fa della sua vita un’opera d’arte. Modo di essere – le fotografie che lo ritraggono ci fanno capire quanto tendesse a essere iconasimbolo di un mondo che si era scelto per corte dei miracoli, con quella coabitazione quasi cameratesca del sentirsi egli il sacerdote di un’umanità di cui interpretava gli scarti quasi uterini, le provocatorie e affettate contraddizioni. Perché questo ci lascia Pasolini in un centenario dove è stato celebrato come un veggente e martire della società, il suicidato potrebbe dire Artaud, se avesse avuto a che fare con un uomo travagliato dall’ingenua inattitudine a vivere, ma Pasolini era tutto tranne che ingenuo, era ben cosciente dello scandalo che suscitavano le sue accuse a un mondo che dello sradicamento si era fatto volontà e causa – declinando per noi il valore di stigmata che Simone Weil aveva elevato a vero male della modernità industriale –, ma con quella distanza che, nonostante le prese di posizione controcorrente, facevano di lui un terminale della cultura borghese, l’intellettuale che critica i padri e le madri ma vive in casa loro. Un problema che c’è anche in un altro amante dello scandalo, nel primo Giovanni Testori, quello dei Segreti di Milano, e una delle ragioni per cui questo ciclo non ebbe compiuta conclusione fu, credo, proprio l’insorgere di questa coscienza nel grande scrittore lombardo di cui il prossimo anno si celebreranno i cent’anni della nascita e i trenta della morte.

Pasolini è stato, e lo è tantopiù oggi, segno di contraddizione per una cultura di sinistra che negli ultimi decenni – tutti quelli che ci separano dalla sua morte? – ha tradito non tanto i valori quanto le posizioni critiche che il “suicidato” praticò nella sua dialettica fin dall’adesione al sistema marxista, concludendo con il rifiuto dell’ideologia come scialuppa di salvataggio in un mondo di dilagante conformismo e spudorata ipocrisia. Vogliamo ricordare la critica all’industria culturale come maschera di quel capitalismo che ha cucinato per bene il popolo servendolo alla propria tavola nella crosta di pane della società di massa? Le tre mostre che si sono aperte a Roma con piccoli slittamenti di date (anche in chiusura) sotto l’architrave semantico Tutto è santo, raccontano al tempo stesso questo groviglio di contraddizioni e la patetica fine delle aspettative di quel popolo, che tale non è più benché qualcuno ancora lo evochi, il cosiddetto popolo di sinistra. Il corpo fisico della sinistra come anima e spirito progressista, verrebbe da dire; così come il corpo di Cristo è la Chiesa, il popolo di Dio.

Spadarino, 'Cristo mostra la ferita nel costato'

Spadarino, "Cristo mostra la ferita nel costato" - Perth, Museum & Art Gallery

La santità pasoliniana è la ricerca laica di quel corpo, una sorta di invocazione a “restare umani” cui oggi una scrittrice italiana fa il verso invocando per tutti un “tornare umani”. E infatti le tre mostre usano la litania comune come diaframma da cui entra la luce che illumina rispettivamente il “corpo politico”, il “corpo poetico” e il “corpo veggente” (fino al 28 febbraio). Pasolini è stato un poliedrico cercatore di poesia e senso della realtà; ma anche un erede dell’esistenzialismo, reso più cinico dalla memoria di un mondo che stava scomparendo e di cui le sue origini friulane e il rapporto con la madre sono i testimoni più incisivi nella sua visione del mondo. La mostra sul “corpo poetico” allestita al Palazzo delle Esposizioni è forse quella che più ha interpretato attraverso l’immagine il dettato narrativo dell’unicum che Pasolini, secondo i curatori – Giuseppe Garrera, Cesare Pietroiusti e Clara Tosi Pamphili –, rappresenta come poeta, scrittore, regista, intellettuale: «corpo e incarnazione della parola» che a sua volta trasferisce la parola nell’oggetto- libro facendone un punto di attrazione e di tensione, dove l’archivio delle memorie, anche quelle rifluite nella “rassegna stampa” di una vita della quale il catalogo fa testo (edito, come gli altri due, da 5 Continents), di contrappunto allo Zibaldone di pensieri e critiche dispensati nei giornali e nei libri.

Il corpo pasoliniano è stato così costantemente scorticato e spolpato, come la carne arrostita di un kebab, per una sorta di mensa collettiva dove i commensali del rito hanno cercato di mantenere viva la sua presenza urticante rispetto all’accomodante pensiero dei non più marxisti italiani ed europei, perché tutti nuovi socialisti usciti dal prolasso delle sinistre di fine Novecento. Apparecchiare la tavola con i libri di Pasolini e dei suoi amici o nomi di riferimento («i suoi oggetti di ammirazione »), rischia soltanto l’effetto inumazione per il lungo viaggio del faraone nella stanza al centro della piramide. Ecco, allora, la sala del «dileggio del corpo» e quella «dell’abiezione dell’intellettuale “di sinistra”» e la sequela di procedimenti giudiziari contro l’uomo scandaloso, ma anche la satira politica oltraggiosa per stigmatizzare i suoi costumi morali. La rilettura attuale documenta anche altre sfere della sua vita privata e sociale: il ruolo che attribuiva al femminile, alla moda ma anche la ben nota predilezione per il calcio, fino a sigillare tutto nel grembo della Roma di borgata. Ma se il richiamo alla lingua è luogo e momento veritativo dell’autenticità del parlante, ciò costringe a rileggere lo stesso Pasolini sotto quest’ottica. Cosa che nel trittico resta piuttosto sottotraccia.

Una foto di Paul Ronald del 1963: 'Sul set de 'La ricotta' '

Una foto di Paul Ronald del 1963: "Sul set de 'La ricotta' " - .

È più un’apoteosi che un esame senza false idolatrie. Ma l’apoteosi è l’anticamera della fine. La litania che introduce al “corpo del veggente”, dipanato nelle sale di Palazzo Barberini, va a risvegliare invece il legame profondo di Pasolini con la storia dell’arte, fin da quando fu allievo a Bologna di Roberto Longhi (un primo assaggio l’avevamo avuto proprio nella città felsinea nei primi mesi dell’anno con la mostra Pier Paolo Pasolini. Folgorazioni figurative). Giustamente Michele Di Monte chiama in causa la metodologia longhiana delle ben note proiezioni di diapositive, spesso in bianco e nero, quale ginnastica visiva per i suoi studenti, come contrappunto alla tecnica del montaggio cinematografico poi praticato da Pasolini. Anche in questo caso sacro e santo si scambiano le parti, se non altro perché nel film La ricotta il riferimento a Pontormo e a Rosso tornano in mise en abyme cinematografica, ma secondo Di Monte si tratta di una ricerca delle sopravvivenze nelle immagini di un retaggio antico da cui discendiamo, che è warburghiana soltanto in superficie. «Sono anticlericale, ma so che in me ci sono duemila anni di cristianesimo» disse Pasolini: non avrebbe potuto fare, altrimenti, un film così intensamente cristico e cristiano come il Vangelo secondo Matteo.

Ciò allude a “contenuto e stile” ed è il suo modo di sfuggire allo sradicamento in una vaga sopravvivenza del mondo contadino, qualcosa di pagano precristiano; e non a caso entrano in gioco Ernesto De Martino con le ricerche sul planctus antico, e il pensiero di Eliade sul sacro come «realtà per eccellenza» nelle società precristiane. I richiami al dolore materno antico che rivive nelle sculture e nei dipinti dell’iconografia cristiana, può essere certamente visto come una forma di “rivalità mimetica” tesa a sviscerare una tradizione per leggerne nelle interiora le sopravvivenze pagane, ma è un anacronismo che poteva piacere al marxista De Martino per trovare l’appiglio di una nuova tradizione laica risalendo fino alle prefiche greche (ciò che i laicisti europei di oggi forse non sottoscriverebbero mai). Eppure il richiamo a David, alla Morte di Marat, con tutto ciò che cela di non detto – il rituale funebre, l’espianto del cuore del rivoluzionario e la sua ostensione appeso alla grotta dei Cordiglieri – è un esempio che ci dice quanto sia imitativa del cristianesimo una laicità che dice di risalire alle sorgenti precristiane. Già Blumenberg ci spiegò che non è così che si può creare una nuova tradizione alternativa al cristianesimo.

Sarebbe lungo addentrarsi in questo argomento storico-critico, resta solo lo spazio per il terzo polo di questa mostra, quello che presenta il “corpo po-litico”, il momento pubblico e lo scandalo che culmina nella morte di Pasolini. È il terreno di un martirologio che trova la sua profezia nella “benedizione” che il corpo del profeta ha ricevuto dalla proiezione del Vangelo secondo Matteo sul suo torso, come accadde a Bologna, 31 maggio 1975, sei mesi prima del suo assassinio. Fu la “pubblica ostensione”, scrive Bartolomeo Pietromarchi, orchestrata da Fabio Mauri, artista amico di Pasolini, che già un paio di mesi prima aveva eseguito una performance analoga a Roma sotto il titolo Oscuramento. Pasolini sentiva la “mutazione antropologica” in atto, che oggi vediamo pericolosamente spinta oltre il “restare umani”. Questa mutazione che Pasolini ha avvertito molto presto e su cui ha alimentato il suo orizzonte di dépense, direbbe Bataille, va riletta anche alla luce della sua tragica fine. Il martirio di Narciso allo specchio. Ma se si va incontro al martirio, lo si cerca, senza fuggire con tutte le forze la propria fine, si può ancora dire di essere santi?

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