giovedì 18 febbraio 2021
Il pensatore coreano-tedesco riflette su come il consumismo e l’assenza di una vita simbolica e rituale ci privino della capacità di pensarci nel mondo e del senso di comunità
Il filosofo coreano-tedesco Byung-Chul Han

Il filosofo coreano-tedesco Byung-Chul Han - Merve Verlag

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I riti sono azioni simboliche. Tramandano e rappresentano quei valori e quegli ordinamenti che sorreggono una comunità. Creano una comunità senza comunicazione, mentre oggi domina una comunicazione senza comunità. A costituire i riti è la percezione simbolica. Il simbolo (dal greco symbolon) indica originariamente il segno di riconoscimento tra ospiti (tessera hospitalis). L’ospite spezza a metà una tavoletta d’argilla e ne dà un pezzo all’altra persona in segno di ospitalità. In tal modo il simbolo serve per il riconoscimento. (…) La percezione simbolica, intesa come riconoscimento, percepisce ciò che dura: il mondo viene liberato dalla propria contingenza e ottiene un che di permanente. Oggi il mondo è assai povero di simboli: i dati e le informazioni non possiedono alcuna forza simbolica, per cui non consentono il riconoscimento. Nel vuoto simbolico si perdono quelle immagini e quelle metafore capaci di dare fondamento al senso e alla comunità, stabilizzando la vita. L’esperienza della durata si attenua, mentre la contingenza aumenta radicalmente. I riti si lasciano definire nei termini di tecniche simboliche dell’accasamento: essi trasformano l’esserenel- mondo in un essere-a-casa, fanno del mondo un posto affidabile. Essi sono nel tempo ciò che la casa è nello spazio. Rendono il tempo abitabile, anzi lo rendono calpestabile come una casa. Riordinano il tempo, lo aggiustano.

Nel romanzo La cittadella, Antoine de Saint-Exupéry descrive i riti proprio come tecniche temporali dell’accasamento: «e i riti sono nel tempo quello che la casa è nello spazio».(…) Oggi al tempo manca una struttura stabile. Non è una casa, bensí un flusso incostante: si riduce a una mera sequenza di presente episodico, precipita in avanti. Nulla gli offre un sostegno, e il tempo che precipita in avanti non è abitabile. I riti stabilizzano la vita. Parafrasando Antoine de Saint-Exupéry, potremmo dire che i riti sono nella vita ciò che le cose sono nello spazio. Per Hannah Arendt è la resistenza delle cose a offrire loro un’«indipendenza dagli uomini». Le cose hanno «la funzione di stabilizzare la vita umana». La loro oggettività sta nel fatto che «gli uomini, malgrado la loro natura sempre mutevole, possono ritrovare il loro sé», cioè la loro identità, «riferendosi alla stessa sedia e allo stesso tavolo». Le cose sono il punto fermo, stabilizzante della vita. I riti hanno la medesima funzione: stabilizzano la vita per mezzo della propria medesimezza ( selbigkeit), della loro ripetizione ( wiederholung). Rendono, dunque, la vita resistente. L’odierna coazione a produrre sottrae alle cose la loro resistenza: essa distrugge consapevolmente la durata allo scopo di produrre di piú, di costringere a un maggior consumo. L’indugiare, d’altro canto, presuppone cose che durano; se le cose vengono solo usate e consumate, ecco che indugiare diventa impossibile.

E dal momento che la stessa coazione a produrre destabilizza la vita smontando ciò che dura nella vita, essa distrugge anche la resistenza della vita, sebbene quest’ultima si allunghi. Lo smartphone non è una cosa che piacerebbe a Hannah Arendt, gli manca proprio quella medesimezza in grado di stabilizzare la vita e non è neanche particolarmente resistente. Si differenzia da cose come un tavolo, che mi affrontano col loro sé. I suoi contenuti mediali che richiamano di continuo la nostra attenzione sono l’esatto contrario del sé. Il suo cambiare rapidamente non consente alcun indugio. L’inquietudine propria di questo tipo di apparecchio lo rende una non-cosa. Inoltre, il suo utilizzo diventa costrittivo, invece da una cosa non dovrebbe scaturire alcuna costrizione. Sono le forme rituali che, come la cortesia, rendono possibile non solo un bel rapporto interpersonale, ma anche un bel rapporto delicato con le cose. Nel quadro rituale, le cose non vengono consumate o spese, bensí usate: cosí possono anche invecchiare. In preda alla coazione a produrre ci rapportiamo alle cose e al mondo non come utilizzatori, bensí come consumatori. Di ritorno, le cose e il mondo consumano noi. Il consumo senza scrupoli ci attornia insieme alla sparizione, che destabilizza la vita. Le pratiche rituali fanno sí che ci rapportiamo armoniosamente non solo con le altre persone, ma anche con le cose.

(Traduzione S. Aglan-Buttazzi; © di Ullstein e per gentile concessione di Berla & Griffini Rights Agency)

Han e questo liberalismo che ci tiene in trappola

Simone Paliaga

«La parola religione deriva da relegere, prendere nota. Ogni pratica religiosa è un esercizio di attenzione, e il tempio è un luogo di profonda attenzione. Secondo Malebranche, l’attenzione è la preghiera naturale dell’anima. Oggi l’anima non prega, produce se stessa senza sosta». «Il costante update, che è arrivato a riguardare tutti gli ambiti della vita, non consente alcuna durata, alcuna conclusione. La coazione permanente a produrre conduce a un disaccasamento, che rende la vita più contingente, effimera e costante». Solo la presenza di riti permette di dare forma al fluire del tempo, di articolare la vita in momenti, di scandirne i passaggi, insomma di accasarsi. Senza i riti assistiamo a un uniforme fluire di momenti che si inanellano uno all’altro senza mai concludersi. Lo sapevano già, a modo loro, Émile Durkheim, Erving Goffman, Mircea Eliade, Julien Ries. Con insistenza, avevano riconosciuto la rilevanza dei riti per evitare che storia e tempo sopraffacessero l’uomo, lasciandolo in balia del fluire di eventi senza senso e direzione. Oggi questi riti si sono liquefatti, triturati in uno scorrere indistinto e monotono che ha espulso dal suo orizzonte ogni forma di alterità e differenza. A vite piatte corrisponde un fenomeno nuovo, a opinione di Byung-Chul Han, La scomparsa dei riti (pagine 138, euro 15, ebook euro 7,99). È questo il titolo del libro del filosofo coreano naturalizzato tedesco, da oggi in libreria per le edizioni Nottetempo e con la traduzione di Simone Aglan-Buttazzi, di cui pubblichiamo uno stralcio qui sopra, per intercessione dell’editore e gentile concessione di Berla & Griffini Rights Agency. Classe 1959, armeggiando con disinvoltura la lingua di Heidegger, che ha imparato a partire dagli anni Ottanta, quando da Seul è riparato a Berlino, Han si fa carico della vocazione originaria della Scuola di Francoforte che invece negli ultimi anni ha rinunciato alle sue ambizioni di critica sociale. Il pensatore coreano, da anni, tassello dopo tassello, smonta il meccanismo su cui si costruisce la legittimità dell’edificio neoliberale. Alla retorica di cui si fa forte, Han non concede spazio alcuno. Tutte le parole d’ordine del neoliberalismo sono passate impietosamente al setaccio. Inni alla trasparenza, ricerca spasmodica della performance, esaltazione dell’eguale, culto dell’uomo che si fa da solo, lungi dall’annunciare l’alba dell’emancipazione rinserrano l’uomo, afferma Han, in una trappola esiziale. Anche la violenza di cui è oggetto ormai non proviene da fuori. Il suo luogo di nascita e di applicazione, come Han sostiene in un altro testo pubblicato da Nottetempo, Topologia della violenza, è trasferito nell’intimità dell’uomo. È lui stesso che si rinserra in vincoli e lacciuoli minando non tanto la sua libertà quanto sé stesso. Oggi la situazione peggiora a seguito del peso lasciato ai Big Data e all’intelligenza artificiale che li organizza, sottraendo al pensiero la sua virtù creatrice. «Sulla strada che porta dal mito al dataismo, scrive Han - il pensiero perde del tutto il proprio carattere ludico, si avvicina al calcolo. Ma le fasi del pensiero non sono affatto fasi di calcolo capaci di perpetuare l’Eguale. Sono piuttosto turni di un gioco o passi di danza che creano qualcosa di completamente diverso, un diversissimo ordine delle cose».

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