martedì 29 settembre 2009
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La politica ecclesiastica dell’I­talia, dall’Unità ad oggi, a­vrebbe tradito il progetto di «Libera Chiesa in libero Stato» di Cavour e anche i Concordati con la Santa Sede, quello del 1929 e quello «nuovo» del 1984, su que­stioni essenziali, la famiglia, la scuola, il sostentamento del clero, avrebbero posto la Chiesa in posi­zione di «predominio» per la de­bolezza della nostra politica. Queste le considerazioni critiche, rivolte all’attualità, che alcuni re­censori (tra cui Sergio Romano) hanno ritenuto di poter ricavare dalla lettura del corposo e docu­mentato volume dello storico Ro­berto Pertici Chiesa e Stato in Ita­lia: Dalla Grande guerra al nuovo Concordato 1914-1984 (Il Mulino, pp. 892, euro 55). L’autore in realtà ribatte a quest’interpreta­zione, riduttiva rispetto al suo la­voro che non porta affatto a privi­legiare la linea della «separazio­ne » rispetto a quella della «conci­liazione »; la lezione stessa della nostra storia, partendo da Ca­vour, può aiutare a comprendere che non servono forzature o schematismi ideologici. «Cavour – attacca il professor Pertici – pro­poneva una politica ecclesiastica completamente nuova nell’Euro­pa del suo tempo. Fino ad allora, infatti, le posizioni di privilegio tradizionalmente riconosciute al­la Chiesa si coniugavano con un attento controllo dello Stato nella vita e anche nelle vicende della Chiesa stessa. Partendo dall’espe­rienza americana, letta attraverso Tocqueville, Cavour metteva al centro della sua proposta politica il problema della libertà religiosa che egli connetteva col separati­smo. Il suo era un separatismo 'a­mico della religione', che non e­scludeva il ricorso a trattative (e tentativi ci furono) per arrivare a un accordo complessivo con la Santa Sede su 'questione roma­na' e politica ecclesiastica. Ma negli anni successivi emerse un separatismo meno benevolo (si potrebbe dire ostile), che finì col prevalere. Molti settori della sini­stra storica e anche di certa destra risorgimentale ritenevano infatti necessaria una politica che pun­tasse a ridimensionare la presen­za cattolica nella società italiana. D’altronde è difficile pensare che Pio IX, già dopo l’occupazione di parte del suo Stato e poi di Roma, si dimostrasse disponibile a una trattativa. La stessa legge delle «guarentigie» del 1871, che pure garantiva il pieno controllo del Vaticano e una indubbia libertà di governo, era ai suoi occhi un atto unilaterale; non aveva alcun ca­rattere pattizio e quindi non pote- va essere ac­cettata dalla Chiesa. Toccò atten­dere il 1929 perché la 'questione romana' fos­se definitiva­mente ac­cantonata con il Trattato e il Con­cordato ». Ciò che non era stato possibile con l’Italia liberale, si sarebbe però realizzato con il regime fa­scista. Un successo per Mussoli­ni. «È la Grande guerra che avvia il momento di svolta nei rapporti tra lo Stato e la Chiesa. La quale non attese Mussolini per intra­prendere il cammino della conci­liazione. Già nel 1919, con Orlando presidente del Consi­glio, si era arrivati a un passo dalla con­clusione e le trattative prosegui­rono con Nitti e Bonomi. Certo, alla fine, fu Mussolini a conclude­re. Ma – raramente – si ricorda un episodio significativo: pochi mesi dopo l’11 febbraio, la Santa Sede autorizzò la pubblicazione sulla r ivista Vita e pensiero di ampi stralci del diario delle trattative scritto dall’ormai cardinale Cer­retti, che ne era stato uno dei pro­tagonisti; si voleva sottolineare che i Patti lateranensi erano stati stipulati con lo Stato e non con il partito al potere. Il regime fasci­sta, nel breve e nel medio perio­do, si avvantaggiò non poco della fine della 'questione romana'. Ma sanzionò anche l’esistenza di un altro potere che non sarebbe mai riuscito ad assorbire. Il rap­porto tra il movimento cattolico e il regime è molto più complesso di quanto talora si continua a ri­petere ed è riduttivo confinare la Conciliazione ad un momento (per quanto importante) della storia del fascismo: essa va collo­cata nella storia di lungo periodo dell’Italia contemporanea». Resta il fatto che in campo catto­lico non mancarono voci autore­voli – da De Gasperi a Sturzo, a Montini – critiche soprattutto sul Concordato. «Soprattutto De Gasperi inizial­mente mostrò la preoccupazione che si arrivasse a un connubio tra il fascismo e i vertici della Chiesa. Ma il rischio fu successivamente superato proprio dal problemati­co evolversi dei rapporti. D’al­tronde i Patti del 1929 furono gra­dualmente accettati anche da gran parte dell’antifascismo. Nell’agosto 1938 ci fu un incontro in Svizzera tra un monsignore di Curia e due esponenti del Partito comunista in esilio: questi ultimi rassicurarono il loro interlocutore che non avrebbero messo in di­scussione il trattato, ma solo il Concordato. Posizione che nel 1943 sarebbe stata riconfermata da Giorgio Amendola al direttore dell’Osservatore romano . Però è significativo che, alla vigilia delle elezioni del 2 giugno 1946, nes­sun partito si sia pronunciato per l’abolizione del Concordato. Que­ste posizioni erano dovute al pre­stigio e all’autorevolezza che la Chiesa aveva acquisito durante i tragici anni della guerra e al ruolo ormai centrale che la Dc rivestiva nel panorama politico italiano». La sua ricerca si chiude con il «nuovo» Concordato. Come lo giudica? «Certamente questo testo, frutto di lunghissime trattative tra la Santa Sede e il governo italiano, è molto diverso da quello del 1929. Ha realizzato un decisivo adegua­mento costituzionale in materie delicate nelle quali non erano mancati forti contrasti (matrimo­nio, sostentamento del clero, scuola) e salvaguarda con più for­za il principio del pluralismo reli­gioso. Con la riforma del Concor­dato si apre una fase diversa, con problemi che sono ovviamente nuovi ma che debbono essere af­frontati dalle due parti in un’otti­ca collaborativa, con il contributo responsabile delle forze politiche e culturali laiche e cattoliche».
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