mercoledì 27 agosto 2014
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Tra letteratura e cinema che rapporto c’è? E se c’è è cambiato? Qualche domanda del genere viene a guardare il programma del Festival di Venezia dove ci saranno film su Leopardi e Pasolini e mi pare d’aver visto in programma un documentario su uno scrittore vivente. E certo, possiamo evadere la questione con risposte facili. Del tipo: dipende da ogni singola opera. Oppure: la letteratura provoca immaginazione, il cinema crea immagini e le due cose non coincidono, anzi, il cinema nel ridurre opere a film spesso rischia l’impoverimento. Oppure, altra risposta facile, la letteratura offre un archivio sempre interessante di storie e personaggi che spesso superano le fantasie un po’ rachitiche di sceneggiatori e registi. Ma si tratta, appunto, di risposte facili e tutto sommato inutili. Credo che la questione sia più profonda. E più rischiosa, e più interessante. La questione riguarda la possibilità stessa del cinema di restare un’arte e non diventare una sezione, minore, del grande circo dell’intrattenimento. E dunque il rapporto tra letteratura e cinema passa non solo dalla scelta di temi o personaggi più o meno cool della letteratura come titoli del cinema (bene Pasolini e Leopardi, ma strano che in Italia nessuno abbia fatto un film su Dante, no? O che sui Promessi sposi al di là di vecchi sceneggiati nulla di decente si sia tentato?). Si tratta soprattutto di fare del cinema una forma di narrazione artistica del reale. Non ce la si può cavare usando o abusando dell’aggettivo 'poetico' applicato a film ritenuti emozionanti o suggestivi. Tale narrazione artistica può aversi in un certo senso anche in opere di cosiddetta fiction televisiva. Ci sono stati dibattiti su queste cose e, di certo, alcune produzioni sono possibilità di rappresentazione artistica del reale. Ma appunto credo che il rapporto tra cinema e letteratura più che a livello di temi o di spunti o di personaggi, e più che al livello del carico emozionale messo in moto da un film, passi al livello della concezione dell’opera che si sta compiendo: personalissima in campo poetico e romanzesco, collettiva nel cinema. Intendo che, come aveva intuito Tarkovskij – regista e figlio di un grande poeta –, ogni volta un regista deve decidere se sta lavorando artisticamente su una materia complessa fatta di immagini e di tempo (il ritmo del montaggio ecc.) oppure se sta semplicemente rappresentando qualcosa o qualcuno o una bella o brutta storia. Per esser più precisi, seguendo sempre la intuizione che Tarkovskij applicava all’inizio della storia del cinema e che si può applicare ora alla 'fine' del cinema, credo che i registi debbano concepire il proprio lavoro artisticamente, come invenzione di forme, di immagini e di ritmo e perciò di storie. La cosa non è scontata. Più facile, come avvenne agli inizi della storia del cinema, cercare di fare spettacolo, mettersi a riprendere il teatro e fare intrattenimento. Magari usando temi e volti presi dalla letteratura. Si tratta, insomma, di reiniziare il cinema come arte. E l’arte porta in sé qualcosa di gratuito, di rischioso, di smisurato, che non riguarda tanto il rapporto (necessario) tra l’artista e il mercato o la committenza, singola o diffusa, quanto piuttosto il rapporto tra l’artista e il mondo e il suo segreto. In questo senso, e solo in questo senso, prendere a oggetto figure o temi della letteratura può essere fertile. Altrimenti la biografia cinematografica di uno scrittore o di uno sportivo hanno poca differenza. Scegliere il primo, lo abbiamo già visto, non garantisce per così dire un tasso di arte maggiore all’operazione. La sfida è più profonda e appassionante e, a mio modo di vedere, esiziale per le sorti del cinema come arte. La stanno raccogliendo, mi pare, alcuni registi italiani, tra i più noti come Sorrentino e Martone, ma anche meno noti. In un’epoca in cui il proliferare di immagini, della loro riproduzione, della viralizzazione esibizionista, e in cui (come richiama autorevolmente Jean Clair) anche le arti figurative sembra che spesso non credano più al potere dell’immagine, il cinema si trova a un bivio. Credere all’immagine significa scommettere sul comunicarsi del mondo e del suo mistero nell’avvenimento e nell’incontro. E come sapevano gli sregolatori di tutti i sensi, come coloro che non a caso si chiamano scrittori di icone, e poeti come Rimbaud, a tale incontro occorre prepararsi con quella che Dante chiamava ascoltare la dettatura del reale, una obbedienza. Il cinema può essere un’arte dell’immagine che racconta il mondo, attraverso un lavoro metaforico e artistico che trova nella letteratura un’arte sorella, oppure inseguire il successo o un minimo spazio di sopravvivenza nel sempre più composito e agguerrito campo dell’enterteinement. Vedrò con interesse i due film su Leopardi e su Pasolini proposti a Venezia, e mi rallegro preventivamente del coraggio dei due registi. Li valuterò come un film fatto su un fiore o su innamoramento. E dal cinema continuo ad aspettarmi contributi importanti nella lettura artistica dell’esperienza umana, così come sono state tante poesie e tanti romanzi anche nel nostro tempo. © RIPRODUZIONE RISERVATA PASOLINI. Willem Dafoe
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