sabato 30 aprile 2016
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La musica come massima espressione di libertà, simbolo di una generazione che non si arrende al silenzio, alla paura e lotta per il proprio futuro. La giovane regista tunisina Leyla Bouzid per il suo esordio alla direzione di un lungometraggio, Appena apro gli occhi – Canto per la libertà (premio del pubblico alle Giornate degli Autori del Festival di Venezia e ora nelle nostre sale) sceglie di raccontare il proprio paese impegnato nella rivendicazione di sogni infranti e rubati. Ma non lo fa mettendo in scena la Primavera Araba, bensì l’estate del 2010, i pochi mesi che precedettero la rivolta. Ben Ali era ancora al potere e la diciottenne Farah (l’esordiente Baya Medhaffer), diplomatasi a pieni voti, sogna di studiare alla facoltà di musicologia di Tunisi, continuando a suonare con il suo gruppo rock canzoni a sfondo socio-politico. Incurante dei rischi che corre, la ragazza canta canzoni che parlano di sudore, lacrime e sangue, sogni sbiaditi e persone spente attirando le attenzioni del regime che le sguinzaglia dietro la polizia e ordina la chiusura dei locali dove il gruppo musicale si esibisce. Ma Farah non si arrende, lancia la sua sfida a una società maschilista e bigotta, alla famiglia, in particolare alla madre (la popolare cantante Ghalia Benali), che la vorrebbe chiusa in casa a studiare medicina. Farah non ci sta a lasciarsi tarpare le ali, non le importa del giudizio della gente, vuole essere libera di cantare ed essere se stessa. Cercheranno di fermarla in tutti i modi e proprio quando la giovane guerriera sta per dichiararsi sconfitta, sua madre la aiuterà a ritrovare la voce perduta. «Quando è cominciata la Rivoluzione dei Gelsomini – dice la regista – era forte il desiderio di documentare quello che stava accadendo. Ma io avevo voglia di raccontare tutto quello che non era stato possibile mostrare prima, la soffocante vita di tutti i giorni, il potere della polizia, la sorveglianza continua, la paranoia e la paura dei tunisini negli ultimi 23 anni. La rivoluzione mi ha finalmente permesso di farlo». Leyla è ottimista sul futuro del suo paese, ma molto resta ancora da fare. «L’approdo alla democrazia è un processo lento e ha bisogno di tempo. La Tunisia oggi è un paese nuovo, gode di libertà di opinione e di stampa, la gente parla, sono nate associazioni. Ma il cammino è appena cominciato e dobbiamo continuare a lottare». Figlia d’arte – suo padre è il celebre regista Nouru Bouzid – a soli 32 anni Leyla è una delle più giovani registe tunisine, ma non l’unica. «La Tunisia ha una grande tradizione di registe, ma nessuna è arrivata al successo ancora giovane. È importante che una regista giovane come me si sia affermata perché la rivoluzione è stata fatta proprio dai giovani. Sono stati loro a chiedere cambiamenti, sono soprattutto loro che hanno bisogno di esprimersi e trovare lo spazio per farlo». Come spesso accade, protagonisti e accadimenti del film sono il frutto di invenzioni ed eventi che appartengono alla biografia dell’autore. «Per me Farah è un eroe. Lei è pura, semplice e lotta per vivere come vuole, senza la consapevolezza dei propri limiti, che invece io alla sua età avevo ben chiari. Per questo lei è molto diversa da me. Tuttavia alcune delle cose che vedete nel film provengono dalla mia esperienza personale o da quella di persone a me vicine. Tutto questo nella convinzione che il cinema abbia un potere enorme sulle persone. Alcuni film possono davvero cambiarti la vita». © RIPRODUZIONE RISERVATA
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