venerdì 29 luglio 2011
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Nato in un quartiere popolare, nel cuore della vecchia Roma, come il rione Sant’Eustachio, amico dei vetturini, di tanta gente semplice ma anche altolocata, prete romano come il suo quasi coetaneo, il carabiniere della fede cattolica Alfredo Ottaviani, maestro di teologia sacramentaria, amante di san Tommaso d’Aquino, fine diplomatico ma soprattutto apostolo degli ultimi, gli orfani come le famiglie in difficoltà sfollate durante la guerra, o i preti poveri della Città eterna e non solo. Era il 30 luglio di cinquant’anni fa quando in un’afosa giornata d’estate si spegneva nella sua Roma, dopo aver compiuto da cinque mesi 73 anni di età, a causa di un arresto cardiaco, il cardinale Domenico Tardini (1888-1961), segretario di Stato ma soprattutto più fidato collaboratore di Giovanni XXIII. A mezzo secolo dalla sua scomparsa, rimane ancora viva oggi la sua eredità. Aveva la stoffa del diplomatico di razza e proprio per queste sue capacità fu definito dal senatore Giulio Andreotti un «selezionatore di talenti e di valori».E non è certo un caso che discepoli e continuatori dello “stile diplomatico tardiniano” siano stati importanti ecclesiastici che si fecero strada nel Novecento, usciti dalla sua “scuola di formazione” come i futuri cardinali (solo per citarne alcuni) Agostino Casaroli, Antonio Samoré, Sebastiano Baggio e Achille Silvestrini. Un uomo di Chiesa la cui maggiore grandezza ed eccezionalità, come scrisse il grande Giovanni Papini, fu quella di conoscere «i segreti dello Spirito prima di quelli dello Stato». Il futuro cardinale Tardini entrerà nella Curia romana nel 1921 nella congregazione per gli Affari ecclesiastici straordinari. Dal 1923 al 1929 sarà assistente dell’Azione cattolica, per poi divenire sotto Pio XI segretario nella stessa congregazione per gli Affari ecclesiastici straordinari. E proprio con il grande Papa di origini brianzole si instaurerà un rapporto di collaborazione del tutto particolare: Tardini sarà uno degli estensori della sua prima enciclica Ubi arcano e – strano a dirsi per quegli anni così lontani dal Concilio Vaticano II – affiorerà già nel carattere dell’ecclesiastico romano una forte tensione all’ecumenismo. A colpire ancora oggi di questa figura è il fatto che uno dei debiti maggiori della storiografia contemporanea per comprendere, in una giusta luce, i papati di Pio XI e di Pio XII sia venuto dalla cronaca minuziosa dei suoi diari che, con dovizia di particolari, hanno permesso di svelare il carattere, ma anche la tessitura diplomatica e nascosta, dei due grandi pontefici italiani, testimoniata dalla pubblicazione dei gesuiti Burkhart Schneider, Angelo Martini, Robert Graham e Pierre Blet Actes ed documents du Saint Seige relatifs à la seconde guerre mondiale e più recentemente dagli articoli de "La civiltà cattolica" e del volume Le leggi razziali in Italia e il Vaticano, edito dalla Jaca Book, dello storico gesuita Giovanni Sale. «Sicuramente grazie ai suoi diari – rivela lo storico gesuita – e alla minuziosità di particolari descritti da Tardini abbiamo potuto scoprire il vero temperamento di Papa Ratti di fronte a temi delicati come la Questione romana e la difesa della cattolicità di fronte alle ingerenze del regime fascista, ma anche la sua ferma condanna delle leggi razziali del 1938 csoì come la sua attenzione alla questione ebraica e dei matrimoni misti. Per questo i diari di Tardini sono diventati una fonte di primaria importanza anche per capire i tratti inediti del pontificato successivo a quello di Ratti, quello di Eugenio Pacelli». Il Tardini prete romano, già allievo dei Fratelli delle Scuole Cristiane (di cui sarà, per anni, cappellano del prestigioso collegio De Merode) e poi discepolo del cardinale Pietro Gasparri, sarà uno dei più fedeli esecutori delle direttive di Pio XII («Al Papa bisogna obbedire e dire la verità») ma anche il fine tessitore di una complessa ma efficiente tela diplomatica nella Roma del 1944 occupata dai nazisti: dal salvataggio di tante famiglie povere, orfani, ebrei («È una questione di umanità»), alla consegna di beni primari (soprattutto latte e pane) a tanti indigenti, in particolare i bambini che avverte come i più indifesi fino al concreto aiuto, grazie anche all’allora nunzio ad Istanbul, Angelo Giuseppe Roncalli, offerto ai soldati italiani dell’Armir prigionieri dei russi di Stalin. Il 1946 nella biografia di Tardini significherà la nascita e istituzione di Villa Nazareth a Roma (nei pressi della pineta Sacchetti a cui collaboreranno, tra gli altri, il grande studioso del teatro Silvio D’Amico e lo scultore Pericle Fazzini), pensata per dare un’istruzione e un futuro adeguato a tanti giovani e orfani (i suoi “parapicchi”). Saranno questi gli anni in cui emergerà l’apostolato e azione caritativa di Tardini con la parallela ricostituzione (tutta a sue spese: si priverà persino dell’argenteria del suo appartamento in Vaticano, una volta divenuto cardinale) del Carmelo di Vetralla: il luogo dove deciderà di essere sepolto. Una tensione alla vita contemplativa e all’azione concreta a favore degli ultimi testimoniate e confermate ancora oggi dalla recente pubblicazione edita da Studium e curata dal gesuita Fausto Gianfreda, La guerra, gli orfani, la carità, «Non mi sono dato pace». Scritti spirituali. Quel 1946 rappresenterà anche, agli occhi di padre Sale, il suo «sostegno discreto ma vigile sul ruolo che i cattolici avrebbero dovuto giocare nell’ambito dell’Assemblea costituente». Ma un rapporto del tutto particolare sarà soprattutto quello instaurato con Giovanni XXIII; non a caso, sarà Tardini il primo a conoscere l’idea di un concilio e sempre a lui verrà affidata l’idea e la successiva realizzazione della prima enciclica roncalliana la Mater et magistra. Rivelatore di questo sodalizio sono ancora oggi le parole presenti nelle lettere di Giovanni XXIII: «Ottaviani sorveglia, Domenico governa, Giovanni benedice…». A cinquant’anni dalla scomparsa del porporato romano, rimane viva la sua passione per i grandi della letteratura da Dante, Manzoni al conterraneo Gioacchino Belli (da cui apprenderà quel suo sense of humour che mai lo abbandonerà) alla sua ammirazione e devozione per Teresina di Lisieux, di cui conosce a menadito l’opera più famosa, Storia di un’anima; sarà tra i pochi a poter toccare con mano e studiare, senza rimaneggiamenti, i manoscritti intonsi di Teresina e nel 1951 contribuirà anche finanziariamente all’edizione critica dell’Histoire d’une âme del 1951. Il 2 agosto del 1961 il suo corpo verrà traslato nella chiesa del Carmelo di Vetralla, un luogo lontano dai fasti architettonici delle basiliche romane, scelto perché «davanti alla tomba monumentale di un grande tempio – soleva ripetere – la gente guarda e passa; nella piccola chiesa, invece, la gente osserva e prega».
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