sabato 28 gennaio 2023
Il concetto, oggi centrale in varie accezioni politiche da destra a sinistra, di fatto riguarda la visione che gli altri hanno di noi, ma anche quella che ognuno ha di sé
Identità personale, fragile e necessaria

Ansa/Giorgio Benvenuti

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La parola “identità” ha assunto in questi anni una centralità sociale e politica che non è possibile sottovalutare. Una semplificazione per inquadrare il complesso e mutevole scenario culturale ci fa dire che un’idea di identità come insieme coerente e coeso di elementi condivisi e normativi che unisce un gruppo è il polo d’attrazione di forze conservatrici, sovraniste e populiste di destra. Al contrario, una concezione plurale e frammentata di riferimenti soggettivi, che servono a differenziare individui o sottogruppi e devono essere valorizzati e rispettati in modo inclusivo, è tipica delle proposte progressiste o genericamente di una sinistra post-marxista (si veda la magistrale analisi condotta qualche anno fa da Francis Fukuyama nel suo Identità). Nel primo caso l’identità è ritenuta qualcosa di oggettivo e radicato in una lunga tradizione, anche se più spesso di quanto si creda è costruita a tavolino (come ha documentato per esempio Eric Hobsbawm in Nazioni e nazionalismi). Nel secondo caso, invece, le identità sono il riconoscimento della particolarità rivendicata di ciascuno o delle cangianti emersioni di caratteri che tracciano le coordinate in quel momento prevalenti, dalla professione al genere, dall’etnia alle preferenze valoriali. Quella di cui abbiamo parlato finora rientra nella cosiddetta identità per gli altri, ciò che impedisce alle persone di scambiarci per qualcun altro. Non ne fa parte solo la componente più ideologica ma anche quelle caratteristiche stabili nel tempo sia somatiche sia psicologiche (la mia personalità) sia sociali (stato civile, condizione lavorativa, consumi culturali). L’identità per sé è invece l’insieme delle mie caratteristiche come io le percepisco e le descrivo a me stesso. William James, nei suoi imprescindibili Principi della psicologia (1890), scrive: «Chiunque di noi destandosi dice: ecco di nuovo il mio vecchio me stesso, al modo in cui dice: ecco il mio vecchio letto, la stessa vecchia stanza, lo stesso vecchio mondo». Ma le cose tra filosofia, psicologia e scienza sono molto più complicate di così. Se ancora sottoscriviamo che l’identità personale consiste in ciò che caratterizza l’individuo a livello soggettivo e sociale, includendo i tratti caratteriali, le credenze e i desideri, così come la sua autobiografia intesa come narrazione coerente dei fatti e degli eventi che lo hanno coinvolto, questa definizione tradisce l’adesione a un modello comune che non regge di fronte alla storia e alla critica scientifica. È il compito che si è assunto Eugenio Lecaldano, professore emerito alla Sapienza Università di Roma e figura eminente della filosofia italiana, in un libro che colma una rilevante lacuna nella storiografia del pensiero. Identità personale (Carocci) è infatti il tentativo (riuscito) di tracciare l’evoluzione del concetto da una lunga fase in cui l’identità era radicata in prospettive metafisiche e sostanzialistiche, come un nucleo stabile del proprio io ricondotto principalmente all’anima o alla razionalità, verso posizioni costruzioniste o deflazionistiche. La prima e decisiva svolta arrivò con John Locke, che descrisse l’identità come connessioni esperienziali consapevoli, ovvero come continuità della memoria di sé stessi, una concezione oggi molto comune e ripresa nelle teorie dell’identità narrativa. A questo proposito è utile sottolineare come diverse idee di identità non hanno soltanto un rilievo descrittivo ma anche una portata normativa. Pensiamo alle malattie neurodegenerative e al loro impatto distruttivo sulla memoria: se si adotta l’approccio lockeano, di molti pazienti si dovrebbe dire che hanno perso in parte e in tutto la propria identità di persone, con quello che ciò comporta. Lo scetticismo sulla robustezza del sé si è esteso seguendo David Hume e ha costituito una diffusa linea interpretativa fino a oggi con Derek Parfit, il pensatore più influente nell’affermare la necessità di prendere congedo dall’idea stessa di identità personale a favore di una visione non più centrata su un individualismo forte basato sulla specie umana. A questo eliminativismo hanno risposto altri filoni di riflessione, sia ancorati a retaggi classici sia connessi al naturalismo di stampo darwiniano, in cui è l’osservazione scientifica del contesto evolutivo e del funzionamento umano a suggerire spiegazioni del fenomeno identitario. Che con l’identità si debba tuttavia fare i conti è un dato di fatto che la psicologia contemporanea più avvertita ed empiricamente solida non ignora. Lo testimonia in modo eccellente un volume di Massimo Marraffa (Università di Roma Tre) e Cristina Meini (Università del Piemonte occidentale). In La costruzione dell’interiorità. Dall’identità fisica alla memoria autobiografica (Carocci), i due autori, impegnati da anni su questi temi, riannodano teorie della psicologia dello sviluppo e dell’attaccamento con prospettive in cui l’individuo è costruito in una forte relazione con l’ambiente socioculturale, con lo scopo di fornire un quadro unitario sempre ancorato ai dati della più recente ricerca sperimentale. La traiettoria neo-jamesiana delineata è quella che va dalla nascita nel bambino della coscienza di sé legata al corpo e alle emozioni, con il progressivo arricchimento del mondo interiore, fino alla costituzione di un io collocato nel tempo e che viene vissuto razionalmente come un’autobiografia dotata di significato. La principale caratteristica di questo modello proviene dal carattere difensivo dell’identità così realizzata. Poiché manca un’acquisizione duratura di un sé stabile, il quale non riesce a superare uno stato di minacciosa precarietà dovuta al suo stesso funzionamento, vi è una costante mobilitazione di risorse personali per mantenere un io unitario. E ciò avviene per il bisogno primario di esistere saldamente dotati di un “centro di gravità causale”, che risulta fondamento di benessere psicologico e salute mentale. Questa via naturalistica che prende sul serio l’idea di identità come qualcosa sia di reale sia di necessario potrebbe costituire un ponte da sfruttare anche per un’aggiornata visione personalista. Un esempio di quest’ultima è dato dall’agile e accessibile volume Antropologia filosofica. Persona, libertà, relazionalità (Edusc) scritto da Francesco Russo, professore nella facoltà di Filosofia della Pontificia Università della Santa Croce. In esso, mossi dall’antico motto “conosci te stesso”, si indaga sulla persona come «un vivente corporeo- spirituale e dinamico, liberamente orientato a svolgere il compito di essere se stesso», un io relazionale che è caratterizzato dalla cultura che egli stesso contribuisce a produrre e proteso alla ricerca di senso e alla realizzazione di valori. Un’identità che non è debole, ma neppure mira a imporsi, in quanto dovrebbe essere destinata all’amore e alla comunione. La ricerca sulla e della identità sembra destinata ad accompagnarci sempre. E per questo va salutata positivamente ogni riflessione approfondita che la metta al centro dell’indagine.

Il linguaggio in cerca di una mappa

Un libro a più voci fa il punto su temi come mente, coscienza, significato. E mette ordine nelle eleganti teorie su vaghezza e capacità cognitive

Un ottantenne è una persona anziana? Assolutamente sì. E un dodicenne è una persona giovane? Altrettanto sicuramente. Ma anziano e giovane sono a ben vedere attributi vaghi, perché se togliamo un anno all’ottantenne siamo ancora convinti che un 79enne sia anziano. Lo stesso se togliamo altri dodici mesi. Ma così facendo arriveremo, per esempio, a un 64enne, che sfida le nostre certezze sulla partizione delle età. Per finire poi con un dodicenne (l’80enne iniziale cui si sono sottratti un anno alla volta) che avevamo definito senza dubbio giovane. Ma lo stesso vale all’inverso se al dodicenne si aggiunge un anno e poi un altro… Sembrano sofismi, in realtà si tratta del paradosso del sorite, introdotto da Eubulide di Mileto nel IV secolo avanti Cristo. Ora a qualche conoscitore di filosofia si sarà acceso un lontano ricordo. Quello che i più non sanno sono i progressi che la riflessione contemporanea ha compiuto nell’affrontare con strumenti nuovi problemi antichi. Per quanto concerne la vaghezza del linguaggio, esistono eleganti teorie che ne danno conto nell’ambito della filosofia analitica e che si basano sui limiti delle nostre capacità cognitive (il linguaggio è preciso, siamo noi incapaci di maneggiarlo al meglio) oppure sulle regole che stabiliscono il funzionamento del linguaggio o addirittura sulla vaghezza del mondo in quanto tale. Questi interrogativi ci portano ai significati e alla difficoltà di spiegare come facciamo a comprenderli. Di qui facilmente siamo portati a farci domande sulla mente, che dovrebbe essere la condizione di possibilità della comprensione. La prima scoperta in questa intricata foresta concettuale è però che manca una mappa, soprattutto in lingua italiana. Dove trovare definizioni e spiegazioni introduttive ma non semplificatorie? Come orientarsi in ambiti ormai fondamentali che però sono ignorati dai manuali classici? In soccorso viene un volume coraggioso per concezione e impostazione: Il primo libro di filosofia del linguaggio e della mente (Einaudi, pagine 254, euro 23,00), curato da Elisa Paganini (Università degli Studi di Milano). Ventidue brevi e chiare voci scritte da sei autori per lo più giovani e promettenti (Bordini, Caponnetto, Paganini, Raimondi, Tomasetta e Zucchi) introducono a temi chiave come “significato”, “mente”, “intenzionalità” e “coscienza” e ad argomenti più esotici quali “implicature” e “computazionalismo”. Uno strumento utile allo studente universitario quanto al pensatore di impostazione continentale per entrare nel mondo affascinante ma specialistico di due settori chiave della ricerca filosofica contemporanea.

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