martedì 27 aprile 2021
«Dov’è l’anima? Come pelle di zigrino / si riduce, perisce, marcisce». Così, per non essere annientati dal nulla della taiga, scrivere diventa un modo, per il poeta, di generare sopravvivenza
Varlam Šalamov (1907-1982) fotografato dalla Gpu in occasione del suo primo arresto, nel 1929

Varlam Šalamov (1907-1982) fotografato dalla Gpu in occasione del suo primo arresto, nel 1929 - Archivio

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«Come Noè sull’onda marina / lancio i colombi in avanti, / e sul bianco paese deserto / essi spiccano il loro volo. / Ma irretite dalla neve sono impacciate / le ali degli uccelli, / i bordi dell’arca ghiacciano / alle mie estreme frontiere. / Per la nave non c’è via di ritorno, è incatenata al ghiaccio in eterno, / attraverso le tempeste di neve al mio Araràt, / soffocando vado sul ghiaccio». Alla stregua di un patriarca, si descrive Varlam Šalamov (19071982), in questi versi. Eppure, a differenza del padre di Sem, Cam e Iafet, avverte la vanità dei suoi sforzi e del suo agire. La poesia che lo racconta è compresa nei Quaderni della Kolyma. Poesie (1937-1956) che saranno in libreria da dopodomani, 29 aprile, per i tipi delle edizioni Giometti & Antonello (pagine 156, euro 21,00) con la cura e la traduzione di Gario Zappi e una nota non banale degli editori.

Si tratta di una selezione, corredata da un intrigante inserto fotografico, delle liriche dell’autore russo, alcune delle quali avevano già visto la luce presso le edizioni della Casa di Matriona, mentre la gran parte sono completamente inedite. La lettura dei versi di Šalamov offre l’opportunità di considerare lo scrittore russo, che resta ancora un poeta dimenticato, da un punto di vista inconsueto. Di Šalamov infatti sono noti, al pubblico italiano, insieme a parte dell’opera in prosa, resa disponibile da Adelphi, soprattutto i Racconti di Kolyma, di cui esistono numerose traduzioni su cui svetta quella imponente pubblicata da Einaudi nella versione di Sergio Rapetti. La fortuna di questi testi ha reso Šalamov, nell’opinione comune, un semplice testimone del sistema concentrazionario sovietico. Se è vero ogni racconto della Kolyma è un tassello di un immenso e tragico affresco che immortala la vita nei gulag stalinisti.

Ma l’amico di Boris Pasternak non è solo uno degli accusatori dell’arcipelago gulag. Giunto alla Kolyma nel 1937, rimanendovi fino al 1953, dopo essere già stato rinchiuso in un gulag degli Urali fra il 1929 e il 1931, Šalamov ha modo, durante quella terribile esperienza, di tratteggiare ulteriormente la sua poetica. Se i Racconti rispondono a un dovere quasi pedagogico di denuncia, pur disadorni di geremiadi e strepiti sull’orrore vissuto, i versi, finora passati ingiustamente sottotraccia, svolgono una funzione diversa. Da essi tralucono non solo una tecnica e uno stile ben studiati, e per nulla improvvisati, e il gusto per la sobria poesia classica russa. Emerge infatti un uso della poesia non con una primaria funzione intellettuale, ma come strumento per «sopravvivere, per non dissolversi tra le sconfinate distese ghiacciate della taiga», scrive Gario Zappi.

La ricerca di una via d’uscita dalla solitudine della distesa siberiana la conferma lo stesso Šalamov quando si chiede «Dov’è l’anima? Come pelle di zigrino / si riduce, perisce, marcisce». Per allontanarsi dall’annientamento indotto dalla «crudele scismatica taiga / dove di giorno anche col fuoco non trovi nessuno / non dico un amico, ma neanche un nemico» la poesia diventa Lo strumento privilegiato, come recita il titolo di una sua lirica. Essa gioca un ruolo quasi soteriologico. Lo testimoniano i versi che lui stesso considera rappresentativi della sua poetica. «Quanto è primitivo / il nostro semplice strumento: / dieci quinterni di carta da dieci soldi, / una matita frettolosa: / ecco tutto ciò che occorre agli uomini / per innalzare qualunque / castello, veramente in aria, sul destino quotidiano». Šalamov aveva memorizzato le sue liriche ai tempi della prigionia, trascrivendole solo successivamente, a distanza di tempo. «Nel 1949, mentre lavoravo come infermiere in un gulag, mi capitò - annota lo stesso scrittore in un testo del 1964 - di partecipare a una 'spedizione di taglialegna' e tutto il tempo libero scrivevo: sui risvolti di vecchi ricettari, su strisce di carta da imballaggio, su cartocci vari». In questi versi gli aguzzini non recitano un ruolo.

A essere onnipresente e indispensabile per il poeta, sprofondato nel mondo ghiacciato siberiano, è la natura. «Foreste di pini», «larici di cristallo », «ombre dei salici» sono al tempo stesso confidenti e compagni di sofferenza. Dal febbraio dalla «gelida oscurità sfavillante» alla breve «ora di danze sfrenate» agostane, le stagioni si alternano, inanellando al caldo afoso il freddo polare. I versi però non si acciambellano nell’intimismo, del tutto assente. Sono invece intrisi di natura e realtà storica. I nomi di Dante, Shakespeare e Maeterlinck fanno da contrappunto alla solitudine della tajga diventando quasi dei leali compagni di viaggio. Così come i luoghi citati e nomi provenienti dalle profondità della storia russa, come Avvakum. Insieme rappresentano dei segnavia per contrastare la strategia concentrazionaria sovietica. «Dal primo istante del carcere, - riferisce Šalamov nel 1964 - mi fu chiaro che negli arresti non c’era alcun errore e che veniva portata avanti la distruzione pianificata di un intero gruppo sociale: tutti coloro che serbavano nella memoria ciò che non era opportuno ricordare della storia russa degli ultimi anni…».

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