venerdì 19 dicembre 2008
«Non ho nessuna pretesa apologetica, sono solo convinto che mostrando l’influsso semitico dietro al testo greco si possa andare più vicino ai fatti narrati» Dice lo studioso: «Sono testimonianze di quello che è accaduto da parte di chi ha visto l’evento Gesù. Poi la teologia nasce da quell’evento»
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Vangeli? Storicamente affidabili. La Chiesa timorosa della ricerca biblica? Tutt’altro: il metodo storico-critico «corrisponde» alla stessa fede cristiana, che si fonda su un evento storico. Però per comprendere la Scrittura serve «partecipare all’esperienza che vi viene narrata». José Miguel García, teologo e biblista spagnolo, direttore della cattedra di teologia all’Università Complutense di Madrid, ha appena dato alle stampe – nella collana «I libri dello spirito cristiano» della Bur– il saggio Il protagonista della storia. Nascita e natura del cristianesimo (Rizzoli, pp. 455, euro 11). Lo raggiungiamo a Gerusalemme, dove si trova per motivi di studio. Non solo il metodo storico-critico ma uno «sguardo di fede». Questo il compito dell’esegesi secondo Benedetto XVI: perché è importante questo doppio approccio? «La Chiesa deve sempre mantenere l’equilibrio tra questi due elementi. L’affermazione del Papa si inserisce nella tradizione ecclesiale, ad esempio dei Padri della Chiesa, pure loro impegnati a difendere la verità storica dei Vangeli. Essi non usavano il metodo storico-critico, ma a loro modo difendevano quei testi per il loro contenuto storico. Agostino e Origene, nelle loro omelie e libri, cercavano di mostrare come ciò che vi veniva raccontato erano veramente fatti storici, che comunicavano una salvezza e una risposta ai bisogni dell’uomo. I Vangeli non sono informazioni su un fatto passato, bensì su un evento che inizia nel passato ma rimane nel presente e ha la pretesa eccezionale di essere la risposta ai bisogni del uomo. Questi libri parlano di un uomo, Gesù, che aveva coscienza della propria divinità e missione riguardo tutti gli uomini. Quindi è un passato che si fa presente e accade anche oggi». Nel suo lavoro lei cita lo studioso francese Jean Carmignac, che si augurava il declino del «bultmannismo, che in Francia ha pervertito tanti spiriti». «Il vero problema di Bultmann è la sua concezione della fede: a suo giudizio il credere non ha bisogno di nessun appoggio da parte della ragione, la fede basta a se stessa. Ma questo è un uso limitato del metodo storico-critico, si tratta di un utilizzo parziale della ragione. Un esempio: se la razionalità si chiude alla possibilità di un intervento del Mistero nel mondo, di fronte al racconto di un miracolo essa si blocca nel suo pregiudizio e afferma che tale evento non può essere avvenuto». I libri di Corrado Augias diffondono la visione per cui la storia di Gesù è diversa da quella che i Vangeli canonici (e la Chiesa) ci hanno tramandato. Cosa risponde da studioso di scienze bibliche? «Questi volumi considerano i Vangeli come non storicamente affidabili: se si pensa che essi siano stati scritti soltanto per comunicare una dottrina, l’approccio che ne segue viene determinato da tale pregiudizio. I Vangeli non sono una teologia o la riflessione di una comunità: sono innanzitutto testimonianze di quello che è accaduto da parte di chi ha visto l’evento-Gesù. Poi la teologia nasce dall’evento. Tra l’altro, se Augias non accetta la testimonianza dei Vangeli canonici, che sono veramente le nostre fonti per conoscere Gesù, su cosa si basa per ricostruire la storia di Gesù? Sulla sua immaginazione? Nel mio libro tento di offrire alcuni argomenti per mostrare che queste testimonianze non sono così tardive come si pensa di solito, bensì molto vicine ai fatti, provengono dai testimoni, da chi ha visto e udito». Lei rilancia l’ipotesi di un substrato semitico nei Vangeli: perché? «Non ho nessuna pretesa apologetica, sono solo convinto che mostrando l’influsso semitico dietro al testo greco dei Vangeli si possa andare più vicino ai fatti narrati. Se questi testi sono stati composti in ambiente semitico – per Carmignac erano scritti in ebraico; a mio parere in aramaico, la lingua parlata da Gesù – ciò significa che sono stati messi per iscritto nella terra dove quei fatti sono avvenuti, non al di fuori, nel mondo greco. Inoltre, il substrato semitico aiuta a risolvere determinate difficoltà che si incontrano nei Vangeli a livello di comprensione del testo». Secondo lei la Chiesa ha paura della ricerca storica applicata alla Scrittura?«Assolutamente no. Forse ne aveva a fine Ottocento - inizio Novecento, quando si è fatta strada l’esegesi razionalista, ma adesso no. Quel tipo di studio ha portato a nuove indagini più approfondite che hanno mostrato la solidità della fede e dei Vangeli stessi: dopo tanti studi fatti negli ultimi decenni si è dimostrato che la Chiesa aveva ragione. Si chiede solo che lo studio venga fatto in maniera scientifica e non pregiudiziale, come chi si accinge alla Scrittura esclusivamente per provare una tesi già precostituita. La Chiesa non rifiuta l’uso del metodo storico-critico, anzi: afferma che é la stessa natura della fede che esige questo studio, che non va contro la fede. Ma è pur vero che per comprendere fino in fondo quello che si racconta in questi libri non basta tale approccio: occorre partecipare alla stessa esperienza che viene testimoniata». Duccio di Boninsegna, «Apparizione di Gesù Cristo sul lago di Tiberiade». Siena, Museo dell’Opera del Duomo
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