venerdì 4 gennaio 2019
Una retrospettiva al Mudec di Milano sullo street artist inglese apre ad alcune domande sul senso artistico di opere chiaramente depotenziate se tolte dal loro contesto “naturale”
I «tatuaggi» di Banksy sulla pelle delle città
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La cosa più simile alla visita di una mostra di opere di Banksy è un po’ come quando si stappa in casa un liquore comprato in un viaggio e si scopre che non è buono come quando lo si era bevuto sul posto. Banksy, street artist inglese, nome senza volto, figura tanto misteriosa quanto celebre come una popstar (la teoria più accreditata vuole che sia il cantante dei Massive Attack, Robert Del Naja), le cui opere sono tra le immagini più note della contemporaneità (persino anche a chi non sa chi o cosa sia Banksy), è amato dal grande pubblico perché è una specie di supereroe (agisce sempre in incognito, punisce i potenti) o di Arsenio Lupin contemporaneo: un artista antisistema e gentiluomo, sofisticato e imprendibile, dotato di humour e abile trasformista. E come un ladro si rivela tale quando opera sul luogo del furto, così le opere di Banksy acquistano davvero forza e senso nel contesto in cui sono state create: le periferie delle città industriali inglesi, il centro di Londra, i vicoli di Napoli, i boulevard di Parigi, la barriera costruita da Israele in Cisgiordania...

«Un muro è una arma molto grande» dice Banksy: e sui muri le sue figure (uomini, bambini, ratti, soldati, Madonne...) denunciano la violenza strisciante di una società che aumenta controllo e repressione, la schiavitù dei consumi, la tragedia dei migranti, i diritti frustrati, il vilipendio dell’ambiente. Realizzate con la tecnica dello stencil, sono spesso a grandezza naturale e soprattutto usano il trompe l’oeil per innestarsi, come una interpolazione, nelle frequenze del reale. Il Mudec a Milano ha organizzato la prima retrospettiva italiana su Banksy, con ampio riscontro di pubblico. Ci sono state già altre occasioni per sollevare dubbi sulla pertinenza del programma espositivo rispetto alla natura di “museo delle culture” del Mudec. Quella di Banksy non sfugge al problema (anche se la considerassimo una mostra sulla “cultura urbana”: davvero il suo lavoro, spesso colto e sofisticato, ne è un indicatore tipico?), così come quella allestita in contemporanea su Paul Klee, in cui l’arte “primitiva” è ancora una volta schiacciata nella prospettiva di fonte del moderno e non oggetto di interesse per se stessa. In questo caso però il dubbio maggiore è sul senso di una mostra su Banksy in sé.


L’artista è il primo a non volerne, in nome di una proclamata indipendenza del sistema. Anche questa, come tutte le altre realizzate su di lui, è “non autorizzata”, per quanto sia composta di lavori, soprattutto multipli, prodotti da Banksy per il mercato, fatto che solleva a sua volta un dubbio: si tratta di una doppia morale dell’artista o dell’ennesima presa in giro della classe borghese che ama così tanto pagare per essere derisa? Certamente il caso recente della spettacolare autodistruzione della sua opera battuta in asta non ha fatto che aumentare il valore di quei brandelli di carta.

Ma è anche vero che una mostra, paradossalmente, rivela più i punti deboli che la forza dell’artista. Di Banksy, come dice l’introduzione al percorso espositivo, è più importante il contenuto del linguaggio formale. Ma poiché la mostra vuole indagarne quale possa essere il posto nella storia dell’arte, proprio lo spostamento dalla strada al museo svincola l’opera dal contenuto, così dipendente dal contenitore, portando in evidenza l’aspetto formale: in questo modo A visual protest non appare molto più che una rassegna di vignette, realizzate con un gusto (viste le scelte estetiche e formali) anni Settanta/Ottanta. Il percorso inizia proprio con i riferimenti estetici e culturali di Banksy: il detournement, ossia lo straniamento attraverso la decontestualizzazione e il rimontaggio di immagini per scardinare le precomprensioni percettive (il parallelo proposto in mostra è Asger Jorn, ma tutto sommato l’iconografia pop e popolare scelta da Banksy lo avvicina più a pratiche magrittiane); il graffitismo (New York, ma si potrebbero aggiungere i murals politici di Belfast); infine il situazionismo e i manifesti delle proteste studentesche parigine (da cui Banksy desume il “personaggio” del ratto).

C’è da chiedersi se la lettura più efficace di Banksy non sia allora come performer: delle cui performance non ci accorgiamo (di nuovo, come per un ladro) ma la cui azione perdura nell’oggetto visuale che ne resta. L’immagine come tatuaggio del reale. Che Banksy non stia nei fogli incorniciati alle pareti (o peggio nei pezzi di muro strappati e musea-lizzati) lo ribadisce la sequenza di immagini che chiude la mostra, un video multicanale che finalmente restituisce le opere nel loro contesto, in mezzo alla gente. Se c’è un ruolo nella storia dell’arte per Banksy, forse, è allora nel solco della tradizione della pittura murale: ritrovata nella sua vocazione civile e sottratta a quella retorica ideologica che l’aveva soffocata.


Fino al 14 aprile in mostra al Mudec di Milano


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