martedì 9 marzo 2010
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La guerra in Iraq stravince all’Oscar con The Hurt Locker. Nel film, come nella vita, ogni giorno è potenzialmente l’ultimo, ogni ora un distillato di tensione, con la morte vissuta tra le dita, nel breve spazio del grilletto o dell’innesco di una bomba. Vale un secondo. «La guerra non è mai un atto isolato» ha teorizzato il generale Von Clausewitz. Per Kathryn Bigelow non è così: la guerra, quella assoluta, è una partita individuale. E la fanno i soldati, singolarmente: uomini in divisa che in quel preciso momento sono come senza esercito. Privi di una patria, di un’ideologia, quasi senza ragione. La Bigelow ha mostrato la guerra senza luogo, l’ha dettagliata e ne ha raccolto l’essenza. Non le interessa parlare di una super-potenza (gli Stati Uniti) che combatte uno Stato canaglia (l’Iraq), né dei possibili interessi economici che stanno dietro la presenza militare americana in Medio Oriente. Questo c’è, ed è lo sfondo fuori dalla sala, le tv ne parlano in un flusso di immagini costante. Alle regista interessa il vizio del gioco della guerra, l’assuefazione al rischio, la solitudine di una dipendenza estrema. Il protagonista è il sergente William James, esperto artificiere, a capo di una squadra di sei membri. Molti sono volontari, e ogni giorno hanno una buona occasione per morire. Decine di bombe da disinnescare. Basta il filo sbagliato, o un movimento impreciso. Questa incertezza li sballa, è una dose quotidiana di stress che li esalta, e «il vivi o muori» come la roulette russa de Il Cacciatore di Michael Cimino. Una possibilità: premi il tasto giusto e resti in vita.«Volevo mostrare la guerra come una droga», ha detto alla Mostra di Venezia la Bigelow. La guerra è un veleno che s’insinua piano, una dimensione altra in cui si è sospesi: è un maledetto videogioco. E i soldati sono giocatori compulsivi che si muovono in soggettiva. Basta vedere l’inquadratura di William dentro il casco monoculare dello scafandro che usa per protezione: ricorda la prospettiva con cui si gioca agli sparattutto (la dipendenza e il videogioco sono i temi ricorrenti nel capolavoro della Bigelow, Strange days).Eppure la regista ha uno sguardo di pietà nei confronti dei soldati, li responsabilizza e non li tratta da burattini o da ragazzacci regrediti a uno stato amorale. E nel finale, dopo tanti duelli col caos, gli mette in mano una scelta. Sta a loro decidere. Questo è lo scarto con cui il film si distanzia da altri del genere. Lo sceneggiatore, anche lui premio Oscar, Mark Boal è un reporter di guerra e ha già lavorato come consulente a Nella valle di Elah, sempre sull’Iraq. Ma lì, la prospettiva era un’altra: era il disastro di una missione messa in mano a dei ragazzini, era la perdita di qualsiasi morale umana del soldato, era la confusione collettiva di una guerra vista da lontano e non vissuta, mostrata ma nascosta. Come in Redacted, forse la più violenta denuncia contro le bugie mediatiche degli Stati Uniti.«Sulle vicende in Iraq c’è davvero poca informazione e la gente ha voglia di verità su una guerra che ormai lo stesso Bush considera sbagliata»: questo il punto di vista scelto dalla Bigelow, crudo e realistico. Non c’è un antimilitarismo sciatto. La politica e le parole imbottite dell’ideologia della guerra al terrore sono lontane. Qui interessano i dettagli con cui convivono i soldati. Come la piastrina di riconoscimento infilata negli scarponi, perché è l’unica parte che si salverebbe nel caso esplodesse la bomba. C’è «l’evidenza», nelle parole della regista «della futilità di questa guerra in Iraq come certamente di tutte le guerre»: il gioco insensato alla consolle, appunto. Forse per questo The Hurt Locker ha vinto l’Oscar a sorpresa su Avatar. Anche nel mondo fantastico di James Cameron si parlava di una guerra, ma lì vinceva il racconto epico di una conquista ingiusta e la critica era chiara. Forse dopo tutti questi ragazzi morti, per gli americani è arrivato il momento di guardare invece la guerra così com’è: un «hurt locker», una cassetta del dolore.
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