venerdì 21 luglio 2023
Nelle sale del Magno Palazzo che fu la residenza vescovile del cardinale Bernardo Cles, con affreschi dell’artista ferrarese e del Romanino, una mostra presenta le 12 tavole restaurate del soffitto
Dosso Dossi e bottega, “Poeta laureato che riceve l’ispirazione”

Dosso Dossi e bottega, “Poeta laureato che riceve l’ispirazione” - Trento, Magno Palazzo-Libraria, Castello del Buonconsiglio

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Il Castello del Buonconsiglio non è la prima volta che negli ultimi decenni indaga l’opera di Dosso Dossi e del fratello Battista, impegnati per un paio d’anni a Trento, distaccati dalla corte di Ferrara, l loro patria natale, dove furono molto attivi al servizio degli estensi. Nel 2014, sotto il titolo Rinascimenti eccentrici, i due pittori e la bottega erano stati studiati partendo dalle opere in loco a cui si aggiungeva una trentina di dipinti e tra questi l’icona dossiana per eccellenza, Giove pittore di farfalle, che durante la guerra era stato trafugato dai nazisti e venne ritrovato dai Monuments’ Men per essere poi restituito al Castello del Wawel a Cracovia, dove tuttora si trova. L’enigmatico dipinto di Giove è il portabandiera di una pittura che cresciuta a Ferrara si alimenterà sempre di sogno e di astrale bellezza (non a caso, nella capitale estense si trova quel ciclo dei Mesi voluto da Borso d’Este ed eseguito nel secondo Quattrocento, a partire dal 1470, da Francesco del Cossa, Ercole de’ Roberti e altri con un sottinteso astrologico poi decifrato da Warburg).

Ma la mostra che oggi il Castello del Buonconsiglio, nelle sale del Magno Palazzo e della Libraria del cardinale Bernardo Cles, dedica ancora a Dosso e a Battista ha tutt’altro taglio ("Dosso e Battista Dossi nella Biblioteca di Bernardo Cles", fino al 22 ottobre). Cogliendo l’occasione di rivedere i dodici grandi dipinti dei Sapienti che adornano il soffitto a cassettoni dorati dopo il restauro, Laura Dal Prà e Vincenzo Farinella (già curatore della mostra del 2014) hanno inteso ripercorrere le ragioni che portarono Bernardo Cles a unire lo spazio della sua biblioteca, che contava un migliaio di preziosi libri, e le immagini che identificano i Sapienti, o per così dire i dotti di varia formazione e competenza: filosofi, studiosi della natura, poeti e musicisti, offrendo al visitatore (ma anche agli studiosi) la possibilità di vedere da vicino e in verticale le tavole che normalmente si trovano a vari metri d’altezza. Si tratta di dipinti a tempera, sui quali si è proceduto a restaurare la superficie dipinta, ma anche il retro ligneo della tavola. Dopo che Cles venne creato cardinale nel 1530, chiamò Dosso e il fratello a Trento, dove soggiornarono tra il 1531 e il ’32, per decorare la residenza vescovile (vi ebbe parte notevole anche Romanino).

Si deve subito dire che le maggiori difficoltà nel condurre una ricerca sui dodici sapienti non sono quelle legate all’intervento di restauro ma all’identificazione delle singole figure, dove spesso il titolo dato all’opera mantiene una schematica genericità: c’è chi medita su un libro, chi indica un punto in una pagina, chi legge una tavola o chi vi scrive sopra, c’è ancora chi riflette su un libro, compare un vecchio poeta laureato (s’intuisce dall’alloro, ma il gesto delle braccia che sembrano saggiare l’aria a occhi chiusi non è meno enigmatico), ma il poeta laureato può anche essere immortalato mentre riceve l’ispirazione; e ancora altri sapienti che leggono e indicano libri, oppure li mostrano, e chi si divide fra un libro e una tavola con disegni geometrici ovvero cade assorto in meditazione. Come notano nel catalogo-monografia edito da Officina libraria gli stessi studiosi convocati in questo intrigante gioco di decifrazione, potrebbe trattarsi di volta in volta dell’astronomo Tolomeo o di Euclide, di Omero o di Tito Livio, ma è ben poco chiara per ora la vera identità dei personaggi proprio perché gli attributi simbolici sono piuttosto generici, sempre posto che, ed è probabile, i pittori volessero dare a ciascuno un nome, ma quale?

Non si tratterà invece di una rappresentazione collettiva che vuole indicare semplicemente le armi e i simboli della sapienza umanistica, con una funzione non semplicemente naturalistica del colore? Due cose saltano all’occhio vedendo queste tavole: la scrittura simulata sulle pagine dei libri sembra essere vera, ma poi quando ti avvicini ti rendi conto che si tratta di una simulazione illeggibile, però ti chiedi se questa scrittura non sia una sorta di idea ante litteram di “gramelot”, quel linguaggio onomatopeico che certi attori inscenano con suoni che evocano parole reali senza avere un significato e una effettiva sintassi. I disegni geometrici, quando ci sono, sembrano forse riconducibili a formule e teoremi ma potrebbero avere come unica funzione sull’osservatore di suggerirgli un ambito nel quale potrebbe muoversi il personaggio ritratto. Ciò che salta all’occhio, a parte le differenze stilistiche che si possono intuire da una figura all’altra e qualche citazione non sempre palmare da Michelangelo e Raffaello (numi tutelari per le grandi aspirazioni umanistiche del Principe vescovo di Trento), riguarda in secondo luogo i cieli che fanno da sfondo alle figure: aurore e tramonti più o meno carichi di luce e densi di colori, nuvole in cieli azzurri ma un po’ spenti, azzurri più vivi, rosei barlumi delle prime luci, accesi tramonti che riflettono i loro fuochi sulle pagine dei libri, bande di colori quasi astratte che si spezzano contro la figura in modo quasi irrealistico, come nel primo dei Poelo ti laureati.

Anche l’abbigliamento andrà meglio indagato, perché in certa misura può collocare le figure dentro le singole arti liberali, fra trivio e quadrivio: dai cappelli bianchi, rossi o rosa alle vesti da antichi filosofi, grammatici e retori; oppure tuniche moderne tipiche di artefici di quelle meccaniche, dall’architettura alla pittura. Bernardo Cles dà l’impressione di tenere moltissimo all’aura che gli può venire da quella biblioteca che diventa il cuore “segreto” del Magno Palazzo, adiacente all’appartamento privato del vescovo, e che fonde appunto libro e imagines degli uomini illustri, sorta di garanti del peso morale e intellettuale del vescovo, che chiama a suoi testimoni, come già si faceva in Grecia e a Roma, i personaggi che avevano reso grande la storia umana, come quella delle settecento effigie raccolte da Varrone nel I secolo a.C. di cui parla Plinio. Tipologie che cambiano in tempi e luoghi: teste e busti, oppure figure intere, erette o sedute, dapprima idealizzate nella fisiognomica e poi più aderenti alla somatica del personaggio con una inclinazione naturalistica, ma sempre con una oscillazione quasi ossimorica fra ideale e tragicità, come riassunto da Giulia Salvo in catalogo.

A testimoni Cles mise i due rilievi di Platone e Aristotele scolpiti da Vincenzo Grandi all’ingresso della biblioteca, mentre all’interno vi erano altri sapienti antichi e i Padri della Chiesa latina. Del resto, come ricordano i curatori, gli ospiti di palazzo venivano accolti da uno specchio con il celebre monito che figurava sul tempio di Apollo a Delfi: Conosci te stesso. Farinella compie un lungo excursus nelle biblioteche antiche di millenni, fino a quelle del medioevo con il monachesimo e dell’umanesimo, culminando in quelle cinquecentesche. In particolare, lo studioso si sofferma sull’affresco di Bramante che raffigura l’uno di fronte all’altro Eraclito e Democrito, il primo che piange e l’altro che ride. Si tratta di una importante coppia dialettica piena di significati già colti all’epoca da Ficino e da Lomazzo, una immagine dalla complessa ermeneutica il cui soggetto avrà ancor più diffusione nel Seicento.

Il dipinto di Bramante infatti mostra vari attributi significativi: il globo terrestre al centro, vari libri aperti e chiusi sulla tavola, il fregio all’antica sul sfondo. Il percorso dell’esposizione, partito da alcuni busti di Sapienti antichi, di particolare e raffinata presenza il ritratto di epoca romana che raffigura Aristotele del II secolo d.C., prosegue con alcuni materiali cartacei, libri e stampe, disegni che ritraggono Virgilio e Platone di mano prossima all’ambito raffaellesco, quelli di Ippocrate, Boezio e Solone a sanguigna di timbro antichista ed eseguito nel Seicento, e infine si apre la tracciatura dossiana con opere che fanno subito sentire le quattro mani dei due fratelli, come il Ritratto di Giulia da Varano bambina del 1524, che evidenzia forti analogie stilistiche con la Sacra Famiglia della Galleria Borghese dipinta da Battista, come anche un dipinto di recente recuperato, la Maga del 1522 di tessitura più morbida e un’articolazione dello spazio decisamente mossa e al tempo stesso fissa come in un incantesimo, e così pure i Santi Cosma e Damiano ancora della Borghese dove la mano di Battista si rivela più arcaica e quasi legnosa nelle figure dei due santi rispetto a quella femminile sulla destra.

La serie dei sapienti che Dosso ha dipinto un decennio prima di quelli per il Magno Palazzo appaiono tutti seminudi e secondo modi e colori che risentono della morbidezza dello stile emiliano, sono avvolti in un semplice drappo rosso, e quello proveniente da Norfolk in Virginia esibisce una misteriosa tabella con numeri. Gli anni a Trento non saranno trascorsi invano e la collaborazione dei due fratelli ha dato, da parte di Battista, esiti notevoli nelle teste del Fariseo e della Madonna, frammenti della Disputa di Cristo nel tempio. Per segnare gli sviluppi della iconografia dei Sapienti, non poteva mancare una indagine sul periodo barocco, e in particolare su alcuni dipinti dedicati alla coppia polare Eraclito-Democrito: basti ricordare gli accenni al pianto e al riso di uno dei testi capitali di quell’epoca, L’Anatomia della malinconia di Robert Burton, o certe pagine dell’Agudeza e dell’Oracolo manuale di Baltasar Gracián.

In un saggio che anticipava di qualche anno il suo piccolo capolavoro incompiuto, L’eloquenza delle lacrime, a proposito di questa sorta di ossimoro personificato nei due sapienti, Jean-loup Charvet ha scritto: «Ciò che interessa l’artista barocco è di descriverci queste due passioni, spesso faccia a faccia, per la pittura nello stesso quadro o in due quadri uno di fronte all’altro, o in musica ancora dialoganti come nella cantata di Giacomo Carissimi A pie’ d’un verde alloro ». La paradossalità di questa coppia di sapienti- passioni anche a Trento rivive nelle due sculture in marmo di Melchior Barthel, circondate dai ritratti eseguiti da Luca Giordano, Jusepe de Ribera, Mattia Preti e Andrea Pozzo. Variazioni tenebrose e “patetiche” dello gnothi seauton di Delfi.

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