giovedì 25 maggio 2023
Alle Olimpiadi internazionali di filosofia, che si sono appena concluse proprio a Olimpia, studenti da tutto il mondo hanno dimostrato come questa possa essere strumento di vita
Il tempio di Zeus a Olimpia

Il tempio di Zeus a Olimpia - WikiCommons

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La trentunesima edizione delle Olimpiadi internazionali di filosofia si è svolta a Olimpia dall’11 al 14 maggio. La rassegna, destinata a studenti delle scuole superiori, è stata diretta da Michalis Paroussis dell’Università di Patrasso insieme al Centro di Studi ellenici di Harvard e alla Società ellenica per la promozione dell’educazione. Oltre cento studenti in rappresentanza di 49 nazioni si sono misurati con brani di al-Kindi, David Hume, Rachel Bespa-loff e Peter Singer. Le medaglie d’oro sono andate al finlandese Pietari Kaaro e al serbo Dimitrije Golubovic. Per l’Italia erano presenti Giovanna Mariapia D’Onofrio del liceo “Pietro Colletta” di Avellino e Matilde Colletto del liceo “Leonardo” di Agrigento, accompagnate a Lisbona dalle professoresse Fiorenza Toccafondi e Francesca Gambetti; conferenze del filosofo tedesco Hans Lenk e del politologo Sergio Imparato. La prossima edizione avrà luogo nel maggio 2024 a Helsinki.

«Quel corpo che, insieme, mi espone al mio ambiente e mi fa avere presa di esso, è me stesso più di quanto non sia mio: mi tradisce tanto quanto mi rivela »: sono le struggenti parole di Rachel Bespaloff, autrice franco-ucraina ancora poco nota, che hanno fatto da traccia all’edizione appena conclusasi delle Olimpiadi internazionali di filosofia (Ipo). Riflettere sul proprio corpo, sulla pienezza di un’esistenza in cui la scoperta di sé è spesso segnata dal confuso mescolarsi di desideri e delusioni, è una sfida che liceali di tutto il mondo hanno raccolto e sviluppato con stupefacente profondità. Nello spettacolare sito dell’antica Olimpia, a far da filo conduttore a quest’edizione delle Olimpiadi è stata una riflessione sulla fair competition, la lealtà e correttezza della competizione. Tema che il filosofo Hans Lenk, già campione olimpico nel canottaggio, ha declinato con leggera ironia chiedendosi quanto sia davvero scorretto fare fallo in una gara. Ma che è rapidamente apparso come un impegno, uno sforzo mai davvero compiuto, anche per gli organizzatori dell’Olimpiade.

Come assicurare infatti identiche condizioni a studenti con formazioni eterogenee, provenienti da sistemi scolastici diversissimi, alcuni dei quali appena arrivati dal Giappone, dall’Argentina o dalla Malesia mentre altri si trovano a poche ore di auto da Olimpia? Perché alla fine sono costoro i protagonisti dell’Olimpiade. A leggerne gli scritti, ci si accorge di come siano loro a metterci alla prova: tanto sono profonde, personali, originali le loro riflessioni. Vi è, in questi adolescenti, un’insospettata saggezza. L’uso della filosofia come strumento di analisi della propria esistenza, del proprio sé più vero, più autentico, la forza di raccontare i propri vissuti più intimi ma anche di osare le più radicali critiche delle società contemporanee: è questa capacità di dare senso al pensiero filosofico, di farne uno strumento di vita nelle sue forme più diverse, che ammiriamo nelle ragazze e nei ragazzi venuti a partecipare alle Olimpiadi.

È il caso della medaglia d’oro di quest’anno, il finlandese Pietari Kaaro. La strada che ha preso, a partire da un passo del filosofo medievale al-Kindi, lo ha portato a criticare una concezione rigida della verità che fatica ad accettare comportamenti non tradizionali, strani, fluidi. Pietari denuncia i rischi di un relativismo della verità ma vede anche come una verità imposta porti a svilire la libertà e con essa la responsabilità di ciascuna persona. E così anche Oskar, medaglia d’argento, per cui il corpo è mediazione assoluta col mondo, corpo toccato dal disagio e invaso dai farmaci, e per il quale « possiamo farci imbottire di stimolatori cognitivi o di Ssri», ma nulla potrà valere il senso di relazioni umane vive, emotivamente intense – della compagnia dei propri pari e della vita di classe in cui ci si ritrova ogni giorno. Sono ragazze e ragazzi ribelli, irrequieti, profondamente coraggiosi, quasi spavaldi nel mettere a nudo il proprio animo e nell’affidarsi alla ragione filosofica per condividere i propri vissuti.

Ma nel consegnare le loro confessioni a docenti di cui non sanno nulla, questi giovani adulti scelgono anche, con un’umanità che non possiamo ignorare, di avere fiducia nella nostra capacità di comprenderli, non solo di giudicarli. Forse è proprio per dirci che confidano in noi che alla cerimonia finale si lasciano andare, mostrandosi felici come bambini all’annuncio di una medaglia, di una menzione, di un riconoscimento. A noi spetta essere all’altezza della loro fiducia. Ed è qui che il richiamo all’equità ci presenta la domanda più difficile. È davvero corretto escludere dall’Olimpiade una parte di questi giovani, i vincitori e le vincitrici delle competizioni in Russia e Bielorussia? E se lo è, su che base? E d’altra parte, fino a che punto potremmo imporne la presenza ai coetanei e alle coetanee ucraine, a guerra in corso e contro la volontà di questi ultimi?

Difficile immaginare una risposta netta, univoca, definitiva. Vi è però un’altra domanda, forse più sottile ma non meno decisiva. Davvero stiamo dando le stesse opportunità a ragazze e ragazzi di tutto il mondo, quando le giurie che valuteranno i loro scritti sono largamente dominate da insegnanti formati nella tradizione occidentale? Quanto siamo in grado di apprezzare la sensibilità teorica, la profondità storica, anche l’eleganza stilistica dei giovani venuti a Olimpia dalla Corea o dall’India, se poi valutiamo i loro lavori secondo logiche, categorie, anche saperi che sono principalmente occidentali? Gli scritti di quest’anno, per quanto brillanti, riflettevano questo timore. La maggior parte di essi si è mossa interamente nell’alveo della tradizione filosofica occidentale.

Chiedere a ragazze e ragazzi che vengono da tutto il mondo di spogliarsi delle proprie tradizioni per calarsi nella filosofia occidentale non è particolarmente saggio. E non solo per equità nei confronti delle altre tradizioni. Una maggior sensibilità nei confronti di altre culture è una priorità anche e in particolar modo per i giovani europei. È un elemento decisivo per la loro capacità di muoversi in un mondo sempre più transculturale. Non si tratta certo di rinunciare alle proprie radici storiche, né di cancellare la specificità di ciascuna tradizione di cultura. Si tratta di formare giovani sempre più consapevoli del fatto che ciascuna cultura, ciascuna civiltà è parte di una più ampia e complessa storia umana e che nessuna tradizione può coltivare un senso di superiorità, o addirittura pretendere a una supremazia nei confronti delle altre. *Presidente della giuria delle Olimpiadi internazionali di filosofia

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