domenica 13 settembre 2009
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In uno scatto fotografico si cela ed esprime l’anelito umano alla velocità assoluta, più che in uno scatto di Bolt. Il giamaicano veloce come il vento vuole bruciare il tempo, in una dimensione relativa: si confronta con tutti gli altri velocisti di ieri e di oggi, sperando che il suo record sul tempo perduri a lungo, come quello leggendario di Pietro Mennea. Nello scatto fotografico il tempo in movimento deve coincidere con la fissazione definitiva, divenire e permanere: i due grandi miti di Eraclito e Parmenide devono coincidere. L’uomo che corre, sulla pista olimpica, in automobile, e il fotografo che aspira a fermare l’immagine in divenire sono attori di un dramma cosmico: Movimento e immobilità di Douve è il titolo del libro più famoso di Yves Bonnefoy, uno dei massimi poeti del nostro tempo. Michael Schumacher e Robert Capa, probabilmente il più grande pilota e il più grande fotografo di ogni tempo (tempo moderno, automobile e fotografia, come il cinema, sono mitologie del Novecento), inconsapevolmente sono attori del dramma eterno dell’uomo, fissare l’attimo senza perderne l’energia che lo fa vivente. «Fermati, illusione!», grida Orazio al fantasma del padre di Amleto, sugli spalti di Elsinore, all’inizio dell’Amleto, la tragedia del tempo. Ogni esperienza mistica, poetica, ascetica, comporta un’uscita dal tempo, ma non il suo annullamento, prima e dopo. «La mia pena è durare oltre quest’attimo», recita un sommo verso di Luzi, dove il procedere del tempo perde l’attimo estatico, che però non sarebbe mai pervenuto, al poeta, all’uomo, fuori dal tempo, vale a dire fuori dall’esperienza umana del mondo. La mostra Quando scatta Nuvolari a Palazzo Te, a Mantova (dal 17 settembre) , suscita questa primordiale riflessione. Nuvolari (favorito e forse propiziato da un cognome che evoca un mondo più aereo della terra) è stato una leggenda dell’automobilismo. Appartiene all’età eroica di quello sport, nel suo repertorio erano comprese le ripartenze dopo incidenti, rotture, aggiustamenti sommari. L’automobilismo era più rudimentale e quindi forse la paura del pilota più fisica, mentre oggi immagino (senza cognizione di causa, peraltro), che a una maggiore sicurezza tecnica e a una allora inimmaginabile fluidità della corsa, corrisponda una devastazione interna in termini di stress: meno rumore, meno cose che vanno a pezzi, un continuo ronzio che ti costringe a un ascolto al limite del subliminale. Infatti i grandi piloti di oggi appaiono freddi, non eroici, o meglio, se la stampa sportiva conoscesse la complessità della psiche e del linguaggio, forniti di eroismo freddo e non gagliardamente agonistico. Molti amano quelli che appaiono privi di freddezza, come il povero Villeneuve, ma credo che lo scopo di un pilota sia vincere, lucidamente, come Lauda e Schumacher, non sfidare. La sfida è altrove, interiorizzata, secondo i dettami del secolo. Non battere l’avversario, ma superare se stessi. Un esercizio più simile a quello dell’apneista, secondo le mie impressioni di inesperto. Obbedendo a un’intuizione lucida e elementare quanto profonda (come dovrebbe essere ogni intuizione vera), la mostra propone le opere di Tazio Nuvolari fotografo: l’uomo che, come sottolinea il titolo, non conosceva solo lo scatto del motore che accelera e brucia il terreno, ma anche quello, istantaneo, secco, tra silenzio e silenzio, della fotografia. Immagini della moglie, dei figli, oggetti o paesaggi, con lo spettro di un pittore che ponga sullo stesso piano ogni aspetto della realtà, interno o esterno, con la velocità con cui al volante si percepisce il paesaggio e la concentrazione con cui affiorano fluendo le immagini care, o domestiche: nella velocità tutto pare visto in sequenze immediatamente fuggenti. Le immagini di Nuvolari fotografo e quelle su Nuvolari pilota ed eroe della velocità non contrastano, paiono fondersi in quel sogno che forse il pilota automobilistico e il fotografo delineano: il film, dove tutto corre fluendo e tutto si perde, ma per restare, infisso nella retina. Lo sguardo di Nuvolari fotografo è particolarmente attento, dotato di equilibrio compositivo, di un certo ingegno architettonico: come se correndo, il mondo, nella sua pienezza di volti, oggetti, luoghi, si concentrasse senza affastellarsi, grazie al dominio dell’uomo che controlla la macchina, che ne piega l’energia al suo disegno. Sulla pista quel disegno pare svanire in un orizzonte confuso, inaccessibile, per questo l’uomo con la macchina fotografica chiama a sé i lari, la casa, il mondo amato da cui pare sempre fuggire correndo come il vento.
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