sabato 31 agosto 2013
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«La pace nel mondo parte dalla famiglia, tra le mura domestiche ed è importante che i padri accompagnino i propri figli nel loro percorso di crescita». Parole di Nicholas Cage che in Joe, il film dell’americano David Gordon Green in concorso al Lido, è un uomo in cerca di redenzione destinato a diventare il padre morale di un adolescente determinato a cercare il proprio futuro rimboccandosi le maniche, ma tormentato dalla brutalità di un genitore alcolizzato. Parole che fanno riflette in una giornata cinematografica in cui a dominare sono padri e mariti violentissimi, capaci di gesti mostruosi. Tratto dal romanzo di Larry Brown e ambientato nella depressa provincia americana del sud, Joe è la storia di un’espiazione e del sacrificio estremo compiuto dal protagonista che cerca di rimediare al male fatto in passato aiutando un giovane a coltivare la speranza in un mondo nel quale, come nel vecchio e selvaggio west, ci si fa ancora giustizia da soli a suon di cazzotti e fucilate. Luoghi oscuri e putrescenti spesso frequentati dal cinema americano invitato ai Festival internazionali negli ultimi due anni: Joe non offre a tal proposito elementi di originalità, ma l’intensa interpretazione di Cage riscatta almeno in parte una storia già vista. «Non amo pensare alla recitazione come a una menzogna – dice ancora l’attore, che fra tre settimane sarà in Cina per girare Outcast –  preferisco trovare il modo per arrivare alle sensazioni provate dai mie personaggi, a costo di continuare a girare su me stesso per raggiungere una sorta di stato di ubriachezza».Nella provincia tedesca è invece ambientato l’altra pellicola in concorso, La moglie del poliziotto di Philip Gröning (regista dello splendido documentario Il grande silenzio ambientato in un monastero francese), storia di ordinarie violenze domestiche che vede protagonista una coppia come tante, apparentemente felice, impegnata a crescere una bimba curiosa e vivace. Il panorama delle piccole gioie quotidiane lascia lentamente il posto però a un’escalation di disperata crudeltà misurata dallo spettatore attraverso i lividi blu della giovane donna, incapace di sottrarsi al proprio destino di vittima destinata alla tragedia. Suddiviso in 59 brevi capitoli che scardinano la consueta struttura narrativa e abitato anche da un misterioso personaggio anziano e muto – il protagonista da vecchio? il padre del protagonista? una sorta di coro silenzioso che assiste impotente alla tragedia in atto? – il film accolto da alcuni con insofferenza, da altri con profondo senso di angoscia, è secondo il regista «un esercizio brechtiano per scoprire l’essere umano». «La suddivisione in capitoli – dice – offre allo spettatore la possibilità di distanziarsi da ciò che vede e di comporre diversi mosaici esercitando la propria capacità di giudizio. Anche il finale può essere letto in maniera diversa». Tanto che per il cineasta La moglie del poliziotto è un film sia sul male che portiamo dentro di noi, sia sulle virtù dell’amore, della gioia, della curiosità. Per la maggior parte dei 175 minuti del film vediamo infatti una madre che insegna alla figlia ad amare la natura, gli animali, persino quel padre che spesso si dimostra con lei freddo e distante. E a proposito del lavoro con le bambine (nel film la piccola Clara è interpretata da due gemelle) aggiunge: «Si tratta di una sfida impegnativa, i piccoli fanno quello che vogliono, non puoi pretendere che ripetano le battute, ma devi creare situazioni per indurli a comportarsi in un certo modo. Ma in nessuna delle scene di violenza le bambine erano presenti sul set: la loro reazione è un’illusione creata dal montaggio».
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