giovedì 7 dicembre 2023
A trent’anni dalla fine del partito cattolico Paolo Pombeni, Guido Formigoni e Giorgio Vecchio tentano il bilancio di una vicenda paradossalmente trascurata dagli studiosi
Aldo Moro parla all'VIII congresso nazionale della Dc nel 1962

Aldo Moro parla all'VIII congresso nazionale della Dc nel 1962 - archivio

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La Dc, questa sconosciuta. Al potere ininterrottamente per 50 anni non ha mai goduto, in realtà, di buona stampa, e neanche di gran considerazione da parte degli storici. Trascurata dalla storiografia laica e di sinistra, non amata particolarmente nemmeno dagli studiosi cattolici, forse anche per l’idea di compromesso e contaminazione col potere che inevitabilmente si porta dietro. Serviva, allora, a 30 anni dalla sua scomparsa una Storia della Democrazia cristiana (1943-1993), il libro appena uscito per il Mulino (pagine 720, euro 38,00) e serviva che si mettessero insieme tre storici di valore come Guido Formigoni, Paolo Pombeni. e Giorgio Vecchio.

«La Democrazia cristiana non è un fenomeno molto studiato», è la constatazione, un po’ sorprendente, contenuta al primo rigo. «Può aver influito il fatto che un partito cattolico costituisse un’eccezione, se non un’anomalia italiana, una sorta di ircocervo», spiega Pombeni. «Un soggetto ibrido e delicato da studiare», lo descrive Formigoni, Un partito orgogliosamente laico eppure perennemente impegnato a prendere le misure col suo retroterra e la Gerarchia, alla ricerca di volta in volta di un idemsentire. Un partito che si è fatto carico della guida del Paese, trascurando spesso di imporre la propria visione o difendere la propria immagine.

Il «partito italiano», nella definizione di Agostino Giovagnoli, si è così prestato sovente a un racconto caricaturale del suo ruolo, a tutto beneficio delle leggendarie imitazioni in tv di Alighiero Noschese. Ma trent’anni dopo la questione si fa seria, se l’obiettivo è andare a scavare, per illuminare l’incerta attualità, nei principi fondanti della Costituzione e delle principali riforme del dopoguerra, che con la storia della Dc sono intrecciate. E una delle chiavi di lettura più interessanti che il libro offre è proprio il racconto, in un accattivante connubio fra cronaca e storia, del continuo rapportarsi col mondo cattolico e le sue istanze complesse, spesso conflittuali fra loro.

Il celebre Codice di Camaldoli contiene già l’aspirazione dei cattolici di farsi carico del bene comune, indicando valori condivisi, poi trasferiti in Costituzione. Ma è significativo che il principale ispiratore di quell’incontro del luglio 1943, il dirigente dei Laureati cattolici Sergio Paronetto, nutrisse dubbi circa l’impegno unitario, con l’assistente degli universitari don Emilio Guano che «temeva di compromettere l’autonomia dell’Ac».

L’idea di confluire nella Dc prese però piede progressivamente grazie anche all’opera di Alcide De Gasperi, che era stato l’ultimo segretario del Partito popolare, e del circolo nato clandestinamente intorno a lui al riparo della Biblioteca apostolica dove era stato assegnato dopo l’esilio. Con l’importante “copertura” portata avanti, nella Chiesa, dal giovane sostituto della Segreteria di Stato, Giovan Battista Montini, che «lavorò con prudenza per accreditare presso Pio XII il ruolo dei cattolici che si stavano organizzando politicamente».

Il passaggio intermedio fu la spinta che nel 1946 venne dai vescovi ai dirigenti di Ac a dare un contributo, candidandosi alla Costituente. Ma lo sbocco finale del processo unitario fu sicuramente il voto del 18 aprile 1948, un successo strepitoso per il partito cattolico che indusse Pio XII nel giorno di Pasqua ad affermare solennemente in piazza San Pietro: « La grande ora della coscienza cristiana è suonata». Lo schema bipolare, però, reggerà poco più di 10 anni, a inizi anni Sessanta è già scontro sull’ipotesi di apertura ai socialisti.

In una celebre Tribuna elettorale Rai del 22 novembre 1961 Eugenio Scalfari, per L’Espresso, alla risposta ritenuta sfuggente del segretario della Dc Aldo Moro, che aveva genericamente difeso l’impostazione laica del partito, lo incalza e gli chiede che cosa farà la Dc se dalla Gerarchia dovesse arrivare un “no” alla scelta del centrosinistra. Moro si dice convinto che così non sarà, e da quel momento avvia un’opera di convincimento con i vescovi per vincere la fiera opposizione capeggiata dal cardinale di Genova Giuseppe Siri, mentre Lercaro e Bologna e Montini a Milano erano per lasciare la responsabilità al discernimento dei cattolici in politica, con un ruolo decisivo svolto, in tandem col segretario di Giovanni XXIII Loris Capovilla, da monsignor Angelo Dell’Acqua, nel ruolo che era stato di Montini di sostituto della Segreteria di Stato.

Il punto di approdo fu il congresso di Napoli del gennaio 1962 che portò all’appoggio esterno dei socialisti al nuovo governo Fanfani. Un processo tanto complesso da ispirare il più lungo discorso che la storia, forse non solo della Dc, ricordi, le celebri cento cartelle e oltre sei ore dell’intervento di Moro. Ma dopo aver sottovalutato i riflessi politici della contestazione, negli anni Settanta per la Dc arriva il brusco risveglio dal Referendum sul divorzio, che rompe il fronte unitario del retroterra cattolico e mette il partito-Stato davanti alla constatazione di essere ormai minoranza nel sentire del Paese.

Tuttavia è sempre al suo retroterra che la Dc si rivolge, nella fase del rinnovamento contrassegnata dalla segreteria di Benigno Zaccagnini, e nel momento della crisi di inizi anni Ottanta, a seguito dell’esplosione dell’inchiesta sulla lista massonica P2. Emblematica l’assemblea degli “esterni” del 1981, che darà vita a due filoni contrapposti , uno sempre più critico, capeggiato dallo storico Pietro Scoppola, e uno invece determinato a giocare un ruolo attivo, sia pur in autonomia, portato avanti dal Movimento popolare di Roberto Formigoni.

Si arriva alla segreteria di Ciriaco De Mita. Il leader irpino ha raccontato di quando Giovanni Paolo II gli chiese di parlargli della Dc. L’unità politica vacilla, ma per il papa polacco quella italiana è una felice anomalia da salvare, lo lascia intendere chiaramente intervenendo al convegno ecclesiale di Loreto nel 1985, che segnala la figura del vescovo ausiliare di Reggio Emilia Camillo Ruini, alla guida della Cei dall’anno successivo. Ma se uno spartiacque era stata la drammatica scomparsa per mano brigatista di Aldo Moro - gran tessitore e interprete, non sempre ascoltato, dei segni dei tempi - la Dc si ritrova, priva del suo apporto a fare i conti col nuovo contesto internazionale che non le richiede ora di fare da argine al rischio comunista che non c’è più.

Travolta dalle inchieste, prima Leoluca Orlando con la Rete, poi Mario Segni con il Patto referendario ne teorizzano il superamento. Il segretario Mino Martinazzoli prova a resistere, e a trasferire nel Partito popolare un nuovo progetto unitario. Sul quotidiano della Dc Il Popolo il direttore politico Sergio Mattarella sostiene che «discontinuità non vuol dire delegittimazione e disconoscimento della storia democristiana» e sarebbe un «errore pensare di sbloccare la democrazia italiana attraverso la disgregazione dell’unità politica dei cattolici».

Nel gennaio 1994 Giovanni Paolo II invia una lettera ai vescovi, in cui ricorda i meriti dei cattolici nella nascita dell’Unione europea. Il 18 di quello stesso mese Martinazzoli ci prova, dando vita al Partito popolare, a dare un futuro a quel patrimonio unitario. Ma, come è noto, le cose sono andate diversamente.

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