giovedì 21 marzo 2013
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​La mattina del 9 maggio 1978 un nostro agente dei servizi segreti e un gruppo di guerriglieri palestinesi salivano su un aereo pronto sulla pista dell’aeroporto di Beirut. Ma l’operazione saltava con l’annuncio del ritrovamento del corpo di Aldo Moro. All’alba dello stesso giorno, l’ammiraglio Martini, vice capo del Sismi, raggiungeva da Venezia Belgrado per trattare il trasferimento nello Yemen di alcuni terroristi tedeschi lì detenuti. In seguito a ciò, il leader democristiano sarebbe stato liberato, anche per l’implicito riconoscimento della Brigate rosse da parte di Tito. Missione subito interrotta. Sempre il 9 maggio doveva riunirsi la direzione della Dc, sollecitata da Moro nelle sue lettere. Il presidente del Senato, Fanfani, avrebbe prospettato una soluzione umanitaria, che il partito avrebbe accolta. Al Quirinale, il presidente Leone era pronto a firmare la grazia per una brigatista, non colpevole di omicidio. In Vaticano, dopo la lettera stesa di suo pugno da Paolo VI nella notte del 21 aprile, (come attesta nelle sue memorie, il suo segretario monsignor Macchi) nella quale il Papa pregava in ginocchio «gli uomini delle Brigate rosse a liberare l’onorevole Aldo Moro semplicemente senza condizioni», Montini aveva chiesto a monsignor Curioni, ispettore capo dei cappellani delle carceri, di trovare il modo di giungere alla liberazione dello statista anche con il pagamento di un forte riscatto. E proprio «la mattina del 9 maggio attendevamo una telefonata che doveva annunciare che Moro stava arrivando libero», ricordava padre Carlo Cremona, collaboratore di Paolo VI (nel suo diario, Macchi scrive che «fu prospettata l’eventualità di rilasciare l’ostaggio in Vaticano»). Infine, ancora il 9 maggio, il ministro dell’Interno, Cossiga, riceveva una inattesa telefonata da Berlino Est. Il capo dei servizi segreti della Germania orientale lo informava che Moro stava per essere rilasciato. Poco dopo nella stanza del ministro arrivava Claudio Signorile, vicesegretario del Psi, il partito che da giorni si batteva per una qualche trattativa con i brigatisti (che si sapeva fossero divisi sulla sorte del prigioniero), ma la conversazione fu interrotta dall’annuncio del rinvenimento del corpo di Moro in via Caetani, nel centro di Roma. «Avevo sentito dire che il ministro aveva avuto rassicurazioni che non sarebbe finita così», dichiarava l’esponente socialista. «Certo è strano che Moro venga ucciso proprio quando le condizioni poste dai terroristi per la sua liberazione stanno per essere accettate». Mentre Cossiga annunciava immediatamente le sue dimissioni, alle 13,59 l’Ansa rendeva pubblica la notizia. Le premesse per una liberazione di Moro c’erano dunque tutte in quel 9 maggio di 35 anni fa. Perché invece la vicenda, iniziata quel 16 marzo, si concluse tragicamente? La risposta del giornalista della Rai Alessandro Forlani (che pochi giorni fa ha abbracciato papa Francesco, all’udienza coi mass media: lui cieco, accompagnato dal suo cane) nel libro appena uscito La zona franca (Castelvecchi editore, pagine 326, euro 19,50) è che «i carcerieri di Moro si sono piegati a una volontà superiore che vide allearsi vertici brigatisti e poteri occulti, probabilmente affiancati da un killer estraneo al mondo dell’eversione politica il quale voleva assicurarsi che il lavoro venisse condotto a termine… In tanti nel palazzo nella cerchia ristretta di quelli che contano sanno che la verità non è quella della versione ufficiale (il Moro sempre prigioniero in un appartamento della periferia romana)… ma non hanno alcun interesse a dirlo». La cronologia che il libro ripercorre mettendo insieme relazioni ufficiali, atti processuali, testimonianze diverse, storie eccentriche, supposizioni e indizi, romanzi che alternano fantasia a realtà (come quello di Mazzola, sottosegretario alla Difesa nei giorni del rapimento) e racconti «di chi c’era e ha visto cose che restano senza risposta», interviste ai familiari di Moro (i figli Giovanni e Agnese), ai collaboratori più stretti (Freato, Rana, Guerzoni), ma anche a Galloni e all’onorevole Cazora, che ebbe rapporti con uomini della malavita romana e calabrese, che avevano individuato tra l’altro l’appartamento di via Gradoli, parte dal giorno del rapimento quando, grazie all’aiuto logistico dei terroristi tedeschi, Moro veniva portato in un covo non troppo lontano da via Fani. Sarebbero seguiti altri trasferimenti del prigioniero: in via Gradoli poi nel box di via Montalcini e quindi in una località più sicura, sulla spiaggia di Palo Laziale in un edificio (dove Moro «aveva a disposizione una biblioteca, e il confort di un’abitazione di lusso»), quindi di nuovo in via Montalcini, da dove la sera dell’8 maggio o la mattina del 9 sarebbe stato portato in alcune sale di un edificio di via Caetani e qui sarebbe stato ucciso e il corpo trasferito nella Renault rossa con una studiata messa in scena. Sono molti nel libro gli attori in questa tragica vicenda. Forze dell’ordine e generali piduisti, agenti segreti dell’Est e dell’Ovest e millantatori, in uno scenario che è un vero e proprio labirinto di ipotesi senza alcuna verità. Avrebbe detto 20 anni dopo il rapimento e l’uccisione di Moro, il presidente Scalfaro: «Io sono sempre stato convinto che i brigatisti siano sempre stati dei colonnelli dell’antistato». Ma i mandanti erano più fuori che dentro il nostro Paese.
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