giovedì 9 marzo 2023
Nella foresta boliviana una grande manifestazione, ideata da un medico italiano, fa dialogare i popoli attraverso arte e tradizioni. Partecipano artisti da vari continenti
Un gruppo di bambini guaraní

Un gruppo di bambini guaraní - WikiCommons

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Il prossimo 24 marzo avrà inizio in un remoto villaggio guaraní, Santa Rosa de Cuevo in Bolivia, un festival singolare. Sarà la quarta edizione di un avvenimento in cui confluiranno artisti indigeni e boliviani, ma anche dal resto dell’America Latina e del mondo: musicisti, scultori e pittori, artigiani, gruppi locali di danza e performance. Il festival di Santa Rosa è il frutto dell’impegno trentennale costante di un medico italiano, Mimmo Rosselli, per il quale l’urgenza primaria per una comunità, accanto alla sanità è quella dell’arte e della cultura. Durante le settimane che precederanno il festival un grande coreografo e danzatore italiano, Virgilio Sieni preparerà uno spettacolo con la gente del posto. Il suo metodo, quello per cui è diventato famoso, è comunicare con i gesti e i movimenti della danza, superare barriere linguistiche, culturali, di genere e di handicap senza parole, ma con l’esempio e l’invito tutto fisico della gestualità. Virgilio Sieni non è nuovo a queste esperienze, ma in questo caso la sfida è particolarmente interessante, si tratta di un mondo indigeno, quello di una grande famiglia culturale, i guaraní, diffuso su un’area molto vasta del continente latino- americano. I guaraní furono tra i primi a incontrare gli europei, a scontrarsi con loro e a essere oggetto di conversione da parte dei padri gesuiti. Le reducciones gesuite erano degli insediamenti costruiti nel ’600 in Paraguay ma anche in Argentina, Brasile, Bolivia e in Cile, al fine di sedentarizzare, per poterli evangelizzare, i guaraní che erano nomadi, ma anche di istruirli nelle arti europee, nella musica, nella pittura. Gli indigeni erano sottratti allo schiavismo a cui erano soggetti sotto gli spagnoli e i portoghesi, godevano di una certa autonomia che per i gesuiti mirava anche a creare un clero e classe dirigente indigena (la storia fu raccontata in un film Mission che aveva come protagonista Robert De Niro). A un certo punto risultarono scomode alla “conquista” e furono osteggiate fino alla cacciata dei Gesuiti e alla distruzione delle reducciones. Altri guaraní nella foresta e nelle pianure continuavano a vagare come nomadi e a chi li incontrava dicevano che stavano cercando la «terra senza il male». Arrivavano perfino a Lima dove cercavano di imbarcarsi sempre alla ricerca della terra promessa. Questo anelito li portò a produrre profeti e millenarismi, a costruire una utopia egualitaria di felicità sulla terra. Una grande antropologa francese, Hélène Clastres, ha dedicato un testo fondamentale sul fenomeno, La terra senza il male, il profetismo Tupi-guaraní (Mimesis, 2017). Un altro antropologo francese prima di lei, Alfred Metraux, ha raccontato di migrazioni faticose dove popolazioni di migliaia di guarani guidate da sciamani chiamati carai (o caraibi, da loro viene la denominazione geografica ) si spostavano e danzavano come forma di ascetismo, pur provati da fame e privazioni. Nella mitologia guaraní il mondo è prossimo alla catastrofe e per questo bisogna raggiungere da vivi il paese dell’immortalità. Questo anelito è precolombiano e deve poco all’influenza dei missionari. Gli ultimi indigeni alla ricerca della terra senza il male vivevano a Itaña non lontano da Sao Paulo in Brasile ancora nel 1965 . Una parte dei guaraní oggi sostiene polemicamente che questa storia è stata inventata dagli europei e un attore, regista antropologo e scrittore guaraní, Elio Ortiz ha dedicato al tema un bellissimo film Yvi Maraey, Land without evil (2013). Purtroppo Elio Ortiz è morto poco dopo, anche se le sue ricerche, il suo dizionario, i suoi saggi sono ancora una fonte ricchissima. Il Festival è un omaggio a lui e alla resistenza culturale del popolo guarani. Mimmo Rosselli arrivato sul posto trent’anni fa, invitato da un anziano frate francescano, ha sviluppato un insieme di collaborazioni che ha portato all’invenzione del Festival di Santa Rosa. E Sono stati anni di costruzione di relazioni e di reti, di imbastitura di un tessuto di cui oggi i segni sono evidenti nell’attenzione che il Festival suscita e nel suo allargamento ai centri vicini. La prima prossima grande città, Santa Cruz è a due ore di auto e La Paz è lontana, ma gli artisti arriveranno qui da molto più lontano, Argentina, Cuba, Brasile, Stati Uniti. In particolare Virgilio Sieni che è atteso insieme alla danzatrice e ricercatrice Delfina Stella ai primi di marzo dovrà anzitutto interiorizzare il luogo, il muoversi guaraní, i modi, la tradizione locale del danzare e del fare musica. Viene da pensare a un altro grande momento, quando l’Odin Teatret di Eugenio Barba nel 1976 organizzò uno spettacolo “baratto” in una tribù Yanomami nella foresta amazzonica venzuelana, all’interno del progetto “Uno straniero che danza.” Anche in questo caso degli stranieri danzeranno in terra indigena, ma non da soli, bensì costruendo un muoversi comune alla ricerca di una lingua gestuale ibrida, che faccia da ponte tra le differenze e le storie complesse del mondo postcoloniale.

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