giovedì 18 agosto 2016
Sfrattati dal Museo Aldeia accanto alla stadio, che avrebbe dovuto diventare un parcheggio ma è rimasto un rudere, sono stati quasi ignorati anche nella cerimonia d’apertura per non irritare i potenti “fazenderos”.
I Giochi tristi degli indios lontano dal Maracanã
COMMENTA E CONDIVIDI
Entri con il sole ed esci con il vento. La casa sta dietro una curva, appoggiata alla favela di Vila Canoas a São Conrado, uno dei grandi agglomerati della città carioca. Decine di baracche di mattoni a vista cresciute come un alveare intorno alla sua regina. E poi alberi, grandi. Una foresta. Il cancello lo apre una bambina che ha gli occhi che sorridono: si festeggia un compleanno oggi. Ma è difficile chiedere a loro cosa ne sanno dell’Olimpiade di Rio. Difficile trovarla dietro questi muri poveri, colorati di un’altra vita e di semplicità assoluta. Poi Lidia e Mauro ti vengono incontro e capisci in un attimo che la gioia è una malattia contagiosa. Oggi gli sciamani non ci sono. Ci sono solo ragazzini felici di fare merenda e di tornare a giocare. «Gli indios vanno e vengono – ci spiegano – perché questo è uno dei pochi posti dove sanno di essere al sicuro… ». L’Olimpiade ha cacciato anche loro. Avevano un museo, si chiamava Aldeia Maracanã, di fianco al grande, storico stadio che ha ospitato l’inaugurazione e dove si disputerà la finale del torneo di calcio. Ci abitavano in cinquanta in quel museo. Lo presidiavano in pratica, per non perdere quattro muri che racchiudevano un’identità in pericolo. E infatti li hanno sfrattatati. Per farci un parcheggio dello stadio, dissero. Il parcheggio poi non l’hanno mai costruito. Il museo è diventato un rudere. E gli indios non ci sono più. Loro invece abitano qui da una vita, un vizio di famiglia. Perché il papà di Lidia si chiamava Franco Urani, torinese, presidente della Fiat in Brasile negli anni Settanta, che qui fondò “Para Ti”, l’organizzazione non governativa che da venticinque anni questa favela l’ha curata e ristrutturata, restituendo dignità a chi senza di lui l’avrebbe persa.

Oggi Lidia Urani e Mauro Villone ne hanno raccolto l’eredità e accolgono decine di bambini nel loro asilo. Ma “Para Ti” è molto di più. È la realizzazione di un progetto socioeconomico e culturale, fatto di adozioni a distanza per centinaia di bambini, borse di studio, una casa che accoglie volontari da tutto il mondo che si pagano un alloggio per stare qui e fare del bene. A Mauro questa Olimpiade in fondo non dispiace: «Le trovo belle, soprattutto perché ho anche visto ragazzi delle favelas, magari quelle meno disperate, con addosso una divisa di volontari. Dura poco e non cambia la loro vita, ma è già qualcosa. Però Rio vive blindata. Le strade sono invase da militari in assetto di guerra: 87.000 uomini armati di mitra per garantire la “normalità”. Ma quello che mi rattrista di più è che i Giochi finora sono stati una grande occasione persa. Secondo i dati del Comitato popolare, tra i Mondiali di calcio del 2014 e le Olimpiadi, oltre 77.000 persone hanno avuto le loro case demolite. E poi gli indios, l’identità tradizionale e culturale del Brasile: via, anche loro…».  Murales, oggetti di legno, piante medicinali fatte crescere nel piccolo orto di fianco al torrente che corre sotto la grande casa a più piani immersa nella foresta: gli eredi dei primi abitanti di Rio qui lasciano segni evidenti del loro passaggio. Ma agli indios la cerimonia d’apertura dei Giochi ha dedicato appena un accenno. «Non conviene al governo – spiega Mauro sul suo blog – celebrare questa gente. Il Brasile oggi ha l’ossessione dell’energia. E allora disbosca, devasta, pianta canna da zucchero per trasformarla in carburante. E per farlo deve cacciare gli indios dai loro territori. Per questo non può permettersi che su di loro resti l’attenzione. Uno di questi territori è la terra dei Munduruku, un’etnia profondamente legata alla foresta in possesso di conoscenze antichissime. Qui il governo brasiliano intende realizzare la mega diga di São Luiz do Tapajós, la prima delle 43 previste sul fiume Tapajos. Avrebbe un bacino di 729 chilometri quadri (circa l’estensione di New York) e sommergerebbe 400 chilometri quadri di foresta pluviale incontaminata, portando inoltre alla deforestazione di un’area di 2.200 chilometri quadri».  Il mondo forse non sa. O se sa, non fa nulla. Anche i Giochi, che hanno ovviamente altri scopi e nessuna colpa. Ma che potrebbero accendere i loro riflettori almeno per un attimo anche su questo, visto che il pianeta ora li guarda. Mauro Villone lo pensa da tempo: «Il massacro in atto nei confronti di numerose etnie indigene dall’Amazzonia fino agli stati del Sud è un genocidio lento e inesorabile che sta passando sotto silenzio. Nessuno, a parte alcuni attivisti, ne sta parlando. E l’assurdo è che, al di là della violazione dei diritti umani, i responsabili di tale scempio stanno distruggendo le radici stesse, la cultura ancestrale e il nutrimento spirituale di questo Paese e di tutta l’umanità». Intanto Rio vive la sua ultima settimana dei Giochi, mentre qualcuno ha sottolineato che il budget di spesa previsto per organizzarli (4,6 miliardi di dollari) è una goccia appena nel mare dei costi della corruzione. Che in Brasile è stata stimata in 78 miliardi di dollari l’anno.

«Questa è la straziante realtà di questo Paese, alla cui guida si sono succeduti governanti ladri che hanno sottratto e spedito all’estero cifre inimmaginabili, mentre milioni di persone qui vivono nella polvere.  Anche gli indigeni si trovano ogni giorno a dover affrontare gli attacchi armati dei ricchi fazenderos, in combutta con gli stessi corrotti governanti che nulla fanno per difenderli. In realtà gli indios, come gli indigeni di tutto il mondo, sono una risorsa senza uguali per ricostruire un rapporto con la natura degno di questo nome. Vengono uccisi e deportati senza pietà invece, sradicati senza ritegno dalle terre che hanno abitato per millenni e che conoscono in profondità nelle piante, nei frutti, negli animali, negli spiriti. Terre che potrebbero contribuire a salvare e che invece sono destinate alla distruzione per arricchire le multinazionali. E che potrebbero anche essere una risorsa formidabile per un turismo culturale di qualità».  Lidia e Mauro fanno quello che possono. Denunciano, scrivono, alimentano con il loro impegno molti intellettuali locali che – assicurano – ora si sono accorti dell’importanza di una cultura antica e preziosa che va difesa. Ma hanno anche i loro ottanta bambini a cui pensare, la loro Ong che aiuta tanta gente sovvenzionandosi con le donazioni e i ricavi delle dodici camere della casa che ospitano viaggiatori e studenti. E poi la favela da curare contro gli spacciatori, la prostituzione e soprattutto la miseria culturale di una comunità di tremila persone che anche un salesiano, padre Renato Chiera, spesso viene a trovare. «Un grande uomo – sottolinea Lidia – che in Brasile ha letteralmente salvato più di cinquantamila persone». Domenica i riflettori si spegneranno, le Olimpiadi saluteranno e faranno le valigie: «Non so cosa accadrà – dice Mauro –. Di certo qualcosa di buono resterà. Impianti che torneranno alla comunità, una linea di metrò finalmente, gli appartamenti del Villaggio.  Ma l’Olimpiade dell’esclusione avrà celebrato soprattutto la samba e le spiagge di Copacabana. Dimenticandosi della povertà, dei ghetti dove migliaia di persone si uccidono di crack, degli indios. E lascerà per sempre questo Paese folle, squilibrato ma ancora splendido perché ricco di un cuore enorme». Fuori fa freddo adesso, le nuvole nere corrono sulla favela. Viene in mente un proverbio indio che dice: «Gli alberi sostengono il cielo. Se li abbattiamo, la volta celeste cadrà su di noi». I bambini di Vila Canoas non hanno smesso di giocare. C’è vento forte, ma se ti volti, dietro il cancello di “Para Ti” è rimasto un po’ di sole.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: