sabato 22 luglio 2017
La tentazione gnostica di considerare la carne umana solo come fardello e non come sede di anima e spirito s’insinua nella mente di chi – come Harari – pensa l’umanità come prodotto della scienza
Immagine di un cyborg

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Carne e corpo. Spesso, intrappolati in un delirio gnostico di negazione della materia, sfuggono alla considerazione di molti analisti che preferiscono fare i conti senza di loro. Eppure già San Paolo nella Lettera ai Corinzi non se ne dimentica. Non a caso ammonisce che il corpo «è tempio dello Spirito Santo». E non sfugge nemmeno all’avveduto Maurice Merleau-Ponty quando nei suoi tardi pensieri mette in evidenza come «le cose abbiano una carne: e cioè oppongano alla mia ispezione degli ostacoli, una resistenza che è appunto la loro realtà, la loro apertura, il loro totum simul ». Peccato che di tutto questo i baldanzosi futurologi, che con tanto ardimento e tanta passione, amano descrivere quello che sarà negli anni a venire non ne tengano conto. Non fa eccezione Yuval Noah Harari che nel suo Deus Homo. Breve storia del futuro (Bompiani, pagine 668, euro 25,00), pur nell’avvisare gli esseri umani della strana piega che potrebbe prendere il loro avvenire, pensa che dell’uomo si possa parlare eludendo il corpo e la carne.

Pur con le cautele espresse nelle pagine conclusive Yuval Noah Harari fornisce una lettura coerente, anche se già anticipata pure con maggiore perspicuità in diversi racconti dal profetico Philip Dick, dei processi di cambiamento in atto. Secondo lo storico dell’Hebrew University di Gerusalemme l’azione combinata di biologia e informatica instilla in tutti la convinzione che l’uomo altro non sia che un sofisticatissimo algoritmo capace di produrre, trasmettere ed elaborare dati. Peccato che lo sviluppo tecnologico accelerato del XXI lo sottoponga a un tale flusso di informazioni da renderlo obsoleto e inutile costringendolo a gestire quantità di informazioni a cui non riesce a fare fronte. Saranno sviluppati così algoritmi più efficaci dell’uomo che finiranno col renderlo superfluo. E forse sostituirlo. Il futuro annunciato è terribile. «I Sapiens si sono evoluti nella savana africana decine di migliaia di anni fa e i loro algoritmi semplicemente non sono attrezzati per gestire i flussi di dati del XXI». Oggi stimeremmo «il valore delle esperienze umane in relazione al loro ruolo nei meccanismi di elaborazione dei dati. Se sviluppiamo un algoritmo che assolve il medesimo compito in modo migliore, le esperienze umane perderanno valore». E perderà valore l’uomo fino a scomparire. Le decisioni non sarebbero frutto della sua azione o della sua libertà. «Saranno raggiunte attraverso una reazione a catena di eventi biochimici ciascuno determinato da un evento precedente e di certo non sono libere. E nemmeno le decisioni scaturite da incidenti casuali a livello subatomico sono libere; sono soltanto casuali. Quando poi gli incidenti casuali si uniscono a processi deterministici, otteniamo risultati probabilistici, ma neanche questo equivale a libertà».

Ridurre l’uomo a reazioni chimiche e a produttore di dati significa perderlo al punto che «nel XXI secolo è più probabile che l’individuo sia inavvertitamente disintegrato dall’interno che brutalmente distrutto dall’esterno». Ecco l’avvertimento che Harari lancia agli uomini perché si avvedano del «condizionamento contemporaneo al fine di allentare la sua presa e consentirci di pensare al nostro futuro in maniera assai più creativa». Peccato che dimentichi, in tutto questo, il corpo. Proprio quel corpo, anzi quella carne, che Merleau-Ponty porta come limite alla «mia ispezione degli ostacoli» e che fornirà il granello di sabbia alla stretta di un meccanismo che riduce l’essere e le esistenze a algidi flussi di dati. I corpi in movimento portano caos là dove si pensa ci sia solo ordine e raziocinio, invalidano le regole e sconvolgono la trama di previsioni e statistiche, cercano il contatto con altri corpi, che cresce con il corpo a corpo, e dal corpo arriva quella assoluta novità che spariglia tutte le carte: la nascita, elemento straordinario di imprevedibilità e dunque di quella libertà che impedirà la riduzione dell’umanità a un sofisticatissimo algoritmo organizzatore di dati.

Scrive Fabrice Hadjadj in uno dei suoi libri più riusciti Mistica della carne (Medusa): «Ciò che mi piace nel nome del corpo è la sua unità vibrante, la sua presenza non scomponibile, in breve – osiamo dire – l’anima che traspira da tutto il suo essere. È questo il fascino del suo nome come quello di carne: nasconde molto spirito». E dunque molta libertà.

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