venerdì 2 febbraio 2024
Il telescopio spaziale non è il riproduttore di una forma esistente: ne è l’interprete, l’autore, il demiurgo, la levatrice.
La nebulosa “Testa di cavallo” nella costellazione di Orione, uno scatto del telescopio Esa “Euclid”

La nebulosa “Testa di cavallo” nella costellazione di Orione, uno scatto del telescopio Esa “Euclid” - Esa

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La nebulosa Testa di cavallo è uno dei corpi celesti più suggestivi dell’universo conosciuto. Le sue recenti rappresentazioni si devono al frutto di intense collaborazioni tra numerosi enti di ricerca europei, Euclid, il telescopio spaziale la cui veste autorale ci offre lo spunto per una riflessione aperta sul tema dell’immagine grazie a fotografie dalla risoluzione e ampiezza che non hanno precedenti. Più credibili e nitide di sempre, restituiscono tutta la solidità potente di una forma monumentale che se ne sta lì a 1.500 anni luce di distanza, ambasciatrice di cosmogonie mitologiche, simboli profetici e misteriosi, avviso ai naviganti che intendessero esplorare l’infinito. Suggestivo e illusorio.

Questo colosso di Rodi equino dello spazio di fatto non esiste, non nella forma descritta dalle istantanee. Si tratta di una condensazione di gas e polveri molto meno affascinante della silhouette che appare così convincente nella redistribuzione organizzata da Euclid in pixel e dpi dei fotoni in fuga perenne dal buio siderale. La precisazione è del tutto inincidente, le immagini della Testa di cavallo surclassano ampiamente ogni constatazione razionale. La loro somiglianza con figure che possiamo facilmente riconoscere fa sì che l’evidenza scientifica si dissolva nel miraggio plausibile e allettante di una astronomia familiare.

La riproduzione, che è anche riscrittura e rilettura insieme, sostituisce il vero relegandolo al ruolo di comprimario e si autopromuove a realtà. Finzione? Non esattamente. La partita della percezione, contrariamente a ciò che si pensa, non è soggetta a gerarchie, si gioca tra attori tutti protagonisti, tutti con il proprio palcoscenico e il proprio copione. È vero che senza la nebulosa originale non avremmo le fotografie del telescopio, un legame dovrà pur esserci. Ma è un legame del tutto incidentale.

Il modello, la sorgente delle immagini in cui crediamo di riconoscere un cavallo, è a sua volta immagine. Di configurazioni molecolari, eventi fisici, rapporti spaziali, concatenazioni casuali di collisioni e plasma che ne permettono la rappresentazione in uno stato specifico di esistenza. Per quanto possa sembrare strano l’originale è intimamente omogeneo alla fotografia che ne ricaviamo. La idea di immagine più consueta è quella di una forma cristallizzata su qualche supporto più o meno identificabile, simulacro di fissità immaginarie, feticcio caro a sensibilità modeste.

Pensiamo ad un disco virtuale. La sua memoria è una immagine complessa e articolata, tutt’altro che il santino devozionale della staticità presidio del bigotto di maniera, un reticolo che riorganizza senza sosta i bit rendendone possibile la traduzione in immagini, database, video, suoni, scrittura, fenomeni stocastici e trigger software. Una immagine composita e dinamica capace di produrre altre immagini all’infinito, di dar corpo ad ogni singola istanza di ciò che chiamiamo reale.

L’esistente esprime la sua essenza attraverso l’architettura formale e sostanziale dell’immagine, unica possibile relazione che siamo in grado di stabilire con quello che siamo e che ci circonda, o perlomeno che percepiamo come tale. Anche una sensazione è immagine, l’istinto è immagine, l’olfatto è il risultato di una configurazione precisa di neuroni bipolari che espandono i dendriti a sondare il disegno dell’ambiente circostante. E cosa sono disegno e configurazione di processi, organi e spazi se non altre immagini? Immagini cui non stiamo semplicemente di fronte come a un quadro, immagini che ci attraversano, al tempo stesso nostra materia e nostra rappresentazione, strumenti per rielaborare le alterità, comunque, immagini.

L’immagine è un telaio che condensa le particelle di esistenza e assegna loro una forma nel tentativo disperato di addomesticare il corpo sfuggente della realtà attraverso gli stratagemmi della rappresentazione. Ogni immagine è sempre risultato di una infinità di altre immagini. Chissà se esiste da qualche parte l’unità immagine primigenia non ulteriormente scomponibile, libera dalla necessità del riverbero nell’osservatore che ne costituisce il doppio diverso, distinto di una unica matrice smarrita finalmente nello sconfinamento dell’assenza.

Il caso della nebulosa offre uno spunto ulteriore. Il corpo celeste in sé non è apprezzabile in termini di concretezza accessibile e tangibile, impossibile da raggiungere, constatabile unicamente grazie alle frequenze cui attribuiamo codici di lettura ragionevolmente accettabili e non verificabili in modo diretto. La sua essenza è determinata dalla struttura dei dati raccolti, dai segnali che il telescopio recepisce e assembra nella pretesa regale maestà dell’oggettuale, del tutto teorica.

Di fatto Euclid non è il riproduttore di una forma esistente, ne è l’interprete, l’autore, il demiurgo, la levatrice in un parto privo di genitorialità definite. Non solo, anch’esso è immagine di un apparato pensato per dar corso al complesso di azioni che portano alla raffigurazione del modello, ulteriore immagine di frequenze. Impossibile risalire alla fonte di tutto questo immaginare, fondamento di ogni nostra architettura cognitiva e relazionale.

Quando, nell’osservare le foto incredibili di Euclid ci convinciamo che quella è la Testa di cavallo, ci muoviamo a tentoni nei territori del “vero e del non vero”. Le immagini della nebulosa, non sono la nebulosa ma un suo ulteriore stato di esistenza del tutto autonomo dal referente, per noi più reale del reale. L’immagine non trae alcuna giustificazione dalla sua fonte (la nebulosa) o dall’intermediario che la rende intelligibile (Euclid, l’autore) da cui si distingue per una autoreferenzialità tanto più intensa quanto più ripiegata su se stessa.

Immagine e oggetto sono irrimediabilmente entità separate e contraddittorie, la nebulosa è solida, la nebulosa è un gas, la nebulosa è riconoscibile, la nebulosa è un ammasso privo di qualunque riferimento intelligibile dissolto in dimensioni che perdono di significato. In questa vertigine di specchi un fatto mi è molto chiaro: l’immagine è in grado di compiere un miracolo inaccessibile ad ogni originale cui venisse meno il bagliore della riflessione nella forma: l’esistenza. Ogni altra considerazione è un accessorio temporaneo di trattazioni arbitrarie in cui amiamo rifugiarci. L’immagine è una ipotesi semplicemente inevitabile.

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