sabato 29 agosto 2009
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«Creare una dimora nel silenzio per un centinaio di corpi e un centinaio di cuori». Così il domenicano Marie-Alain Couturier invitò Le Corbusier a progettare il convento di Sainte-Marie de La Tourette in Francia. Costruito nel 1953 dal maestro modernista, è senza dubbio l’architettura conventuale più celebre del XX secolo. Ma non è la sola. Il Novecento e i primi anni del Duemila sono costellati da monasteri e conventi firmati da architetti come Alvar Aalto (Mount Angel, in Oregon) e Marcel Breuer (St. John’s Abbey, Collegeville in Minnesota), gli italiani Gabetti e Isola (Quart, in Val d’Aosta) fino all’inglese John Pawson (il suo monastero cistercense di Nový Dvur, in Repubblica Ceca è del 2004). «La storiografia ha segnalato pochi esempi: Le Corbusier su tutti e i progetti di Louis Khan in America – osserva Maria Antonietta Crippa, storica dell’architettura e docente presso il Politecnico di Milano –. Gli esempi però sono molti e si legano al risveglio del monachesimo benedettino alla fine dell’Ottocento». E benedettini sono i più interessanti architetti di monasteri: «Dom Paul Bellot, morto nel 1944, che opera dall’Inghilterra al Belgio, dal Portogallo al Canada, legato alla tradizione. Accanto a lui l’olandese Hans Van der Laan, scomparso nel 1991, interprete della linea modernista, che ci ha lasciato capolavori come il monastero di Vaals. Per i monaci architetti la concezione dello spazio è quella benedettina, ma non c’è una scelta estetica pregiudiziale bensì un rapporto aperto con la contemporaneità». Tanto da far evolvere le forme: «In diversi casi viene meno la pianta tradizionale per una struttura che chiamo "a cittadella", con spazi molto articolati e privi di chiostro. Si tratta spesso di monasteri americani, immersi nel paesaggio, in cui la funzione del chiostro viene recuperata nel rapporto con la natura». Accanto ai monaci architetti, gli architetti di monasteri: «Due storie parallele che però non si equilibrano. I primi non amano mostrarsi, agiscono in segreto, a loro non interessa il successo. L’architettura di firma è impostata su altre categorie di pensiero e deve così assoggettarsi a un dialogo effettivo con la committenza». «Per un architetto il monastero è un tema di estremo interesse – sembra quasi ribattere l’archistar ticinese Mario Botta – perché stimola la vocazione utopistica dell’architettura. Costruire un monastero è come progettare una città». Quella monastica è un’architettura totale per un’esperienza di vita totale: «Questa città ideale offre spazi di sperimentazione altrove impossibili. Per entrare in un convento, poi, bisogna ancora bussare a una porta. È proprio qui l’attualità del monastero, in questa capacità di non aver perso nel secolo della secolarizzazione la coscienza della "soglia". In un mondo in cui è tutto è permeabile, ha mantenuto una sua integrità formale e statutaria». Per Botta il monastero sembra diventare così l’edificio sacro per eccellenza: «Distinguo lo spazio del sacro tra compiutezza del monastero e incompiutezza della Chiesa. Quest’ultima vive con fatica il suo inserimento in un contesto sociale e urbano, spesso periferico, che la vede con diffidenza». Paradossale che a dirlo sia uno dei più importanti costruttori di chiese contemporanei. «E confesso che realizzare un monastero è il mio sogno segreto. Lo spazio monacale vive in modo perfetto nella cultura contemporanea. È gradito dalla collettività, genera un rapporto di fiducia. Per questo credo che il luogo ideale per un monastero sia la città, il vero deserto contemporaneo in cui il convento è un’oasi». Anche Enzo Bianchi, priore della comunità di Bose, insiste sulla natura altra dell’edificio monastico: «Non è un’architettura per il grande popolo di Dio ma per un gruppo di persone che decidono di ritirarsi dal mondo. Per questo il luogo deve essere sempre improntato alla semplicità e alla severità. È una caratteristica della migliore architettura monastica di tutti i secoli. Io auspico la costruzione di nuovi monasteri piuttosto che il ripristino di luoghi antichi. Si rischia quello che chiamo "lo spirito di boutique": occupare siti monumentali, esposti alla visibilità, può soffocare la vita monastica al servizio dei turisti. O peggio il monumento rischia di diventare la vetrina della comunità. Poi c’è chi torna ad abitare luoghi antichi poco vistosi ma che prendono tante energie per essere usati da occupare tutta la giornata nella manutenzione. La semplicità degli spazi è una esigenza pure nel loro uso». Anche per Enzo Bianchi la comunità dev’essere la responsabile del progetto: «A Bose i monaci sono stati anche gli architetti. Dove questo non è possibile, il dialogo con il progettista è essenziale perché l’edificio attraverso le pietre, i volumi, le luci, esprima le esigenze, la spiritualità, la forma di vita della comunità. Il monastero è molto più che una casa. È il mondo del monaco».
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