venerdì 11 febbraio 2011
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È scomparso l’anno scorso Nicola Zitara, giornalista (fu vicedirettore del «Gazzettino dello Ionio» e caporedattore di «Quaderni calabresi») e appassionato studioso di storia finanziaria del Sud d’Italia. Ora Jaca Book ne manda in libreria l’ultimo lavoro, «L’invenzione del Mezzogiorno» (pp. 496, euro 32), dal quale riprendiamo qui stralci della premessa. Si tratta di una descrizione dell’«esproprio militare» che – secondo Zitara – fu compiuto da banche e affaristi tosco-piemontesi ai danni dell’economia del Meridione: la prima davvero capitalista della Penisola.----La serie di eventi che portaro­no alla cosiddetta unità na­zionale non può in alcun mo­do essere ascritta al moto di popo­lo sublimato da Mazzini. Il succes­so arrivò percorrendo la via milita­re sostenuta dai governi di Francia e d’Inghilterra e accettata dalle ri­spettive classi dominanti. L’esito finale e alcuni particolari fanno pen­sare che l’intrigo internazionale fu opera del gabinetto inglese, men­tre la fase operativa fu affidata al­l’esercito francese, il quale batté sulla pianura lombarda quello au­striaco, la cui sconfitta schiuse le porte dell’Italia intera all’invasione sabauda. Accanto ai militari che prendevano possesso del Paese si mosse la cosca degli speculatori, di cui Cavour si era circondato nel­l’infondato convincimento che la speculazione secondasse la cresci­ta economica. Fu questa classe a guidare il Regno d’Italia nei suoi primi decenni di vita e a dirigere l’azione governativa. Padrona dello Stato, essa riuscì a trasformare il potere politico in capitale mobilia­re, in moneta contante, inauguran­do un processo di accumulazione selvaggia a base peninsulare che dette luogo a due società, una pa­gante e l’altra percipiente; una bifondazione mai superata, che per il Centro-Nord ha costituito, al­la distanza, una fortuna e che per il Sud è stata – ed è – il disastro.Il ca­pitalismo toscopadano nacque con il viatico di soprusi, intrighi, trappole, raggiri e soprattutto leggi generali volutamente ambivalenti, il tutto orchestrato non da un qual­che privato con le mani lunghe e scarso senso morale, ma dallo stes­so Parlamento costituzionale e da governi nazionali, ai quali non riu­scì difficile saccheggiare legalmen­te risorse dei privati meridionali, per riversarle legalmente nelle ta­sche di privati settentrionali. Non solo: storicamente gli apparati isti­tuzionali fecero in modo che al Sud fossero cancellate le attività esi­stenti e quelle nascenti, stroncan­do la forte crescita del Paese. Ciò affinché le aziende del Nord non a­vessero concorrenti.La sventura dei meridionali d’essere un popolo senza lavoro e senza produzione, la sventura ancora maggiore di do­ver sottostare a un tipo di gestione pubblica non solo colonialista ma anche farsesca ha avuto origine i­nequivocabilmente con l’unità po­litica d’Italia. Sul finire del Seicen­to, il secolo della decadenza tosco­padana, il Regno di Napoli si avviò alla rinascita. Il Sud tornò all’indi­pendenza nazionale nel 1734 per effetto di nuovi equilibri fra le po­tenze e le dinastie europee. I Bor­bone furono i re dell’indipendenza napoletana nel nuovo contesto del nazionalismo europeo in forma­zione. Bisogna precisare che, quando Carlo III e Bernardo Ta­nucci arrivarono a Napoli, non si mossero nel vuoto. La lotta per af­fermare la sovranità esclusiva dello Stato era già aperta. L’opera di Pie­tro Giannone (1686-1748) non è il parto di un giurista isolato nel de­serto. Per altro, le spinte che la ri­voluzione commerciale esercitava sulla produzione agraria agirono da ariete contro la rendita baronale [...].Il buon governo assicurò al Paese sessant’anni di pace all’e­sterno e la tranquillità interna; le due cose insieme consentirono importanti, anche se non rumoro­si, cambiamenti sociali [...]. La po­polazione cresceva. Un maggior numero di uomini al lavoro nei campi, l’emersione della classe dei massari, lo spreco dei baroni allar­garono l’area borghese della rendi­ta. Il Paese si arricchì di promesse, Napoli risplendette di pensiero storico, giuridico, filosofico, artisti­co tanto da non farla impallidire di fronte ad alcuna altra capitale eu­ropea del tempo. Bastano i giudizi di Rousseau e di Goethe ad atte­starlo. La massoneria europea guardò con simpatia e inviò i suoi agenti in avanscoperta. E tuttavia la gente dei campi rimaneva povera, il profitto agrario era basso nel confron­to con la Germania, l’Inghilterra, la Francia [...].A di­stanza di secoli dal riformismo napole­tano e dalla consa­crazione della bor­ghesia redditiera, non è difficile di­re che, senza un alleggerimento della pressione demografica nelle campagne attraverso la rinascita delle manifatture, bloccate nei cin­que secoli di usure genovesi, tosca­ne e veneziane sui ricchi e sui po­veri, il sistema meridionale sareb­be arrivato al disastro. Se la mia a­nalisi è esatta, è anche esatto dire che l’industrialismo di Ferdinando II fu una scelta giusta, anzi dovero­sa. Solo che a metà Ottocento la ri­voluzione commerciale aveva già trasformato il mondo nel con­sumatore universale delle merci inglesi, mentre il nazio­nalismo di Fer­dinando II dava fastidio a chi in­tendeva spa­droneggiare su­gli zolfi siciliani e sulle rotte medi­terranee. Cosicché la diplomazia britannica offrì il Sud in dono al sussiegoso conte di Cavour e al li­bero saccheggio del fisco sabaudo.L’esodo di massa che si sviluppò nel secondo dopoguerra – allor­ché la Toscopadana passò da Paese prevalentemente agricolo a Paese industriale –, esodo che coinvolse un numero di meridionali in età di lavoro complessiva­mente maggiore delle persone attive presenti in questo momen­to nel Meridione, basta e pur­troppo avanza come dimostra­zione del fallimento dello Stato unitario sul suo versante Sud. Oggi siamo al disastro raccontato da Saviano: la gente non sa più a che santo votarsi e si arrotola nell’abiezione, che pare essere diventata una struttura etnologi­ca dei meridionali.
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