giovedì 12 aprile 2012
Kindertransport, così è stata chiamata l’epopea di diecimila ragazzi salvati dall’Olocausto prima che le famiglie finissero nei campi di sterminio​. La storia del piccolo Benno, ebreo di Berlino, che nel ’39 i genitori fanno fuggire in Inghilterra. In un libro i diari e il racconto delle figlie .
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Era venerdì sera il 27 gen­naio 1939, e Benno, che oggi ha ottantadue anni e vive a Toronto, se lo ricorda be­nissimo. «Rivedo noi tutti sedu­ti al tavolo da pranzo. Mio pa­dre Max siede a capotavola. Mia madre Golda accende le candele dello Shabbat. Il mio fratellino Charlie di quasi tre anni è accanto a me ... Mio fra­tello maggiore Heinz è seduto davanti alla mamma. Mentre i­niziamo a mangiare…, mio pa­dre dice: 'È molto difficile per noi, ma vostra madre e io ab­biamo deciso che dovete lascia­re Berlino fra pochi giorni. Qui per noi ebrei non è più sicuro. Vi raggiungeremo appena po­tremo' ». Non ha dimenticato nulla Benno. Quello che era ac­caduto prima (la notte dei cri­stalli, le vetrine della sartoria di famiglia infrante, le discrimina­zioni a scuola, i cani aizzati contro di lui dai ragazzi della Gioventù Hitleriana, suo padre portato a Dachau e rilasciato dopo sei settimane) e poi quel­la decisione dei genitori, soffer­ta, che ai suoi occhi di bimbo sembrava manifestare più una volontà di abbandono. E che invece era una scelta disperata sì, ma fiduciosa in quel Comita­to per i Rifugiati Ebrei pronto, nella vicina Olanda, ad aiutare i bambini che riuscivano a en­trare nel Paese eludendo i con­trolli alla frontiera. Così la do­menica successiva, 29 gennaio, Benno e Heinz, salutati i geni­tori, erano già «due bambini senza casa e senza famiglia che fuggivano dalla Germania con solo 10 marchi in tasca e un bi­glietto del treno… verso un mondo sconosciuto». Non ha scordato nulla Benno di quella fuga. Le peripezie per varcare i confini a Kleve, il respingimen­to dalle guardie olan­desi, quelle tedesche che rimisero lui e il fratello sul primo tre­no diretto a Berlino; poi il salto, giù dal vagone, al primo ral­lentamento, e di nuovo sopra un altro treno per Nijemegen, nascosti sotto i sedili di uno scomparti­mento senza luce trattenendo il respiro insieme al fratello. «Non potevo vedere Heinz, lo sentivo solo respirare. Ogni volta che il suo respiro si faceva più pesan­te, pensavo che saremmo stati presi. Dei passi si avvicinaro­no… un soldato entrò, e sen­timmo i suoi scarponi sul pavi­mento, vicino a noi. Heinz e io non respiravamo più, pensava­mo di scoppiare. Dopo qualche terribile secondo, i passi si al­lontanarono ». Benno ricorda tutto, anche quanto accadde dopo. I soccorsi ricevuti, varca­ta finalmente la frontiera; i continui trasferimenti… Dalla prima accoglienza in una fami­glia a un convento di suore, Emmakinderhuis , in campa­gna: «Non mi era piaciuto quel posto dal primo momento. C’e­rano troppe regole, troppo in ordine». Sei settimane dopo, ai primi di febbraio del ’39, ven­gono accompagnati, da un rap­presentante del Comitato per i Rifugiati Ebrei, a Wijk aan zee, e poi, dal 9 marzo successivo in un sudicio orfanatrofio di Am­sterdam: «Anche se non erava­mo stati felici, al convento era sicuramente meglio». Da lì, il 18 aprile, a Hoek van Holland. «Chiedevamo a tutti se sapeva­no dove saremmo andati. 'In­ghilterra' fu la risposta. Come avevano fatto i nostri genitori a organizzare tutto questo? Non lo sapemmo mai. Camminando nella folla vedemmo una grossa imbarcazione in porto piena di ragazzi. Ci dissero di salire a bordo». E dalla città portuale a Felixstowe, poi a Claydon, altri mesi di ostello. Sin quando anche l’Inghilterra entra in guerra e Heinz, or­mai quattordicenne si separa per andare a lavorare a Londra. Benno si ricongiun­gerà con lui solo alla fine della guerra, nel maggio ’45. «Fe­steggiammo pazza­mente, ma io avevo ancora paura. Cosa avrei scoperto? Come avrei ritrovato i miei genitori e il mio fra­tellino? E se non ci fossi riuscito? An­dammo in cerca di notizie». Invano: sia nelle risposte di quanti erano stati liberati dai lager, sia nelle informazioni della Croce Rossa. «Doveva­mo andare avanti e conti­nuare la nostra vita senza sa­pere veramente dove fossero i nostri genitori e Charlie». Si­no alla terribile verità, con­fermata molti anni dopo: «Mandati immediatamen­te nelle camere a gas... Mio padre avrà avuto 45 anni, mia madre 37 e Charlie era solo un bam­bino di 7». Tutto il rac­conto di Benno, pagina esemplare del 'Kinder­transport' e tassello nel mosaico della Shoah, recuperando anche un diario gio­vanile, documenti e fotografie del pe­riodo, arriva in li­breria edito da Mauro Pagliai con il titolo Dieci mar­chi e un biglietto del treno (pp. 96, euro 10). A scrivere queste pagine, che nella versione origi­naria canadese a­prono la collana Holocaust and Hope Testimonial della Lega per i Di­ritti Umani, sono le figlie di Benno: Susy Goldstein, Gina Ha­milton e Wendy Share. Hanno rac­colto la storia di un padre che an­cora ripete: «Perché proprio io? Perché io mi sono salvato, mentre tanti al­tri no?».
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